Iva Bittová: folk dalla Cecoslovacchia a New York
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Intervista con la violinista cantante e attrice, slovacca di padre, morava di madre, che dalla Repubblica Ceca è arrivata a New York. A cinquant’anni, otto album in solo e una dozzina in colloborazione, incarna una musica colta, ma calda e popolare. «Sul palco voglio sentirmi il più libera possibile e non portare tensioni al pubblico».
Iva Bittová, poliedrica artista ceca, arriva a Parma per chiudere la rassegna ParmaJazz Frontiere, mini-festival dedicato ai territori di confine della musica contemporanea nato oltre dieci anni fa. La cornice è quella di un concerto “per pochi”: ingresso a inviti, sala dalla capienza davvero ridotta a Palazzo San Vitale, nel centro della cittadina.
Nebbia in val Padana
L’appuntamento è alle cinque, subito dopo le prove. Quando arrivo i cancelli sono chiusi, l’androne deserto. L’atmosfera è quella classica della domenica nella provincia padana quando ci si trova alle porte dell’inverno: piccole folle si radunano nei bar o alitano sulle vetrine dei negozi d’abbigliamento, la nebbia comincia dal tardo pomeriggio ad avvolgere case e chiese e persone. Una giornalista che collabora all’organizzazione del festival riesce a farmi entrare nel palazzo: la Bittová è alle prese con il sound check girovagando per il palco minimale. Parla coi tecnici per chiedere affabilmente piccole modifiche, non è troppo soddisfatta delle luci che vorrebbe più rarefatte e poi – se fosse possibile recuperarle in qualche modo, a Parma, una domenica di novembre – non sarebbe male disporre attorno alla pedana qualche candela e dei fiori.
Dal pop folk all’avanguardia
Iva Bittová ha un’espressione sfuggente, che muta a ogni sguardo lanciato allo sparuto pubblico ammesso alle prove: imbraccia il violino lasciandosi andare a un canto popolare in chiave virtuosistica. La Bittová fa parte di quel percorso ascetico al canto che ha sempre più adepti, anche sul versante pop: da Bjork a Joanna Newsom, da Vashti Bunyan a Bat For Lashes. Fioriscono e rifioriscono folk-singer che scoprono il piacere della commistione tra le proprie radici e le moderne tendenze musicali: universi fatti di strane creature che popolano boschi o lande desolate, dove rivendicazioni sociali sono spesso assenti, e si privilegia piuttosto un misticismo agnostico, spesso semplicemente la scia delle mode come il fuoco di paglia dell’alt-folk.
Non è il caso della musicista ceca, uno dei punti di riferimento dell’avanguardia mondiale e del panorama “colto” delle musiche contemporanee, che in oltre vent’anni di carriera non ha mai cambiato la propria idea: non innovare a ogni costo, ma sentirsi «il più possibile libera sul palco. Non voglio portare tensione al pubblico. Questo implica che per ogni canzone nuova mi devo esercitare per un anno intero, a volte anche di più. Ma questa è la parte più bella per me: esercitarmi e sviluppare, elaborare le cose», racconta nel camerino davanti a una fruttiera colma d’uva. Un consapevolezza sviluppata attraverso un percorso tormentato, dato che la Bittová – nata nel 1958 a Bruntál, nella Cecoslovacchia comunista – comincia a suonare il violino a sette anni spinta dal padre, polistrumentista dotato di grande versatilità, che l’avrebbe voluta sentire suonare «come un ragazzo». Con il suo strumento nasce un rapporto di amore e odio: «a quattordici anni ho detto alla mia famiglia che avrei smesso di suonare il violino, perché era troppo per me, non avrei suonato più. Così mi sono dedicata alla recitazione», un’attività che negli anni l’avrebbe portata ad apparire in dieci pellicole e ottenere numerosi riconoscimenti (tra gli ultimi, il premio come miglior attrice al festival Slnko V Sieti di Bratislava e all’International Film Festival di Syracuse, New York, per il film Little Blue Girl, 2007).
Conservando una certa purezza
A ventidue anni si rende conto che la vita da attrice non le si addice e torna al violino. E quello, dice, è il momento più importante della sua vita. Le origini ungheresi del padre (slovacco-ungherese di origini rom) forse influiscono sul futuro percorso artistico della Bittová, dato che i precursori della contaminazione della musica “alta” con elementi folk sono i magiari Béla Bartók e Zoltán Kodály. La violinista aggiunge una naturale inclinazione allo sperimentalismo, a partire dal canto che è «completamente libero, senza nessuna lezione accademica». Quel che ne scaturisce non ha precedenti, se non altro per la sua potenza espressiva: «è il mio linguaggio, molti dicono che sia originale, ma io non ci penso, non mi pongo limiti, e se ne ho l’opportunità mi piace lavorare con musicisti jazz come con quelli di musica classica, e anche con dj», sempre «cercando di conservare una certa purezza» al contrario «dell’80% delle persone che calcolano come far diventare la musica piacevole e accattivante». E negli Usa, dove si è recentemente trasferita, di sicuro ha trovato un ambiente ricco di stimoli. Nello Stato di New York è andata cercando la tranquillità perduta nel suo Paese d’origine (nella Moravia del sud) affetto da uno sviluppo urbanistico incontrollato, e ritrovata in Upstate New York, in una casa circondata da foreste e pascoli di cavalli, dove vive col figlio più piccolo, Antonín, anche lui musicista, un altro tassello di una famiglia che ha fatto delle sette note il proprio vessillo. Già dimenticate le vicissitudini d’Europa, e i politici cechi come l’euroscettico Václav Klaus? «Molte cose della politica non le capisco. Ma so che i politici spendono così tante energie per apparire nei media e nei giornali. Pensano solo di essere delle star, questo è quello che mi contraria… Però amo Obama!», confessa candidamente questa cittadina del mondo fautrice di una musica libera. Con qualche difficoltà ripongo nella mia borsa cavalletto e telecamera («do you need help?», mi dice lei), mentre il solito sciopero dei ferrovieri mi costringe a rinunciare al concerto e a correre alla stazione nella speranza d’un ultimo treno.