Irlanda, emigrati per caso
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Andrea PittoriMentre migliaia di giovani irlandesi lasciano il paese man mano che la crisi si aggrava, altri, che progettavano un ritorno, sono bloccati all'estero. Uno scrittore racconta come le porte si siano chiuse alle sue spalle dopo essersi trasferito a Bruxelles e a Pechino.
La Lehman Brothers falliva nella settimana in cui atterravamo a Bruxelles. Due settimane dopo, il governo irlandese firmava un assegno in bianco per garantire i debiti delle banche del paese. Ci sembrarono avvenimenti degni di nota, ma marginali rispetto ai nostri progetti. "Brutte notizie per i banchieri", "tempi duri anche per i politici - pensavamo - Per fortuna non siamo né ricchi, né importanti". "Due caffè, una focaccia e una torta, per favore". Sedevamo, leggendo un quotidiano inglese, in un caffè belga gestito da baffuti camerieri di mezza età. Il giornale parlava di un grave dissesto economico, ma noi lo osservavamo come spettatori che assistono a un'epica rappresentazione, senza renderci conto di essere parte della messinscena.
Eravamo irlandesi espatriati, all'estero per nostra scelta, avendo lasciato Dublino nel pieno del boom, nel 2007. Un assaggio di cultura straniera e poi a casa con il serbatoio pieno: il piano era questo. Non ci rendevamo conto che le porte di casa si stavano chiudendo dietro di noi. Nei 30 mesi seguenti, molte cose sono cambiate. Una breve permanenza all'estero, che potevamo decidere di interrompere in ogni momento, si era trasformata in un forzato esilio imposto dalle circostanze economiche. Una condizione cronica, se non permanente. Ora eravamo emigranti. Incidentalmente. In balia dei mercati finanziari.
Storie come questa si sentono sempre più spesso. Un nostro amico, un ricercatore chimico, ha partecipato a programmi post-dottorato in Olanda e negli USA, ma non ha mai sentito parlare di programmi similari in Irlanda. Nelle università irlandesi non c'è lavoro. Un altro, con tutte le sue competenze nel settore dell'energia eolica, è costretto a 5.000 miglia dalle coste della nostra "Isola dell'Innovazione". Nel 2007 non eravamo che ventenni, con una spavalderia del tutto fuoriluogo. Ora, nel 2011, passata la trentina, ci sentiamo impotenti di fronte all'influenza di forze esterne: i mercati, i burocrati di Bruxelles, i finanzieri di Francoforte. Non siamo messi così male, lo riconosco. Posso solo ringraziare per aver tagliato la corda prima del fuggi fuggi generale. E non posso non essere sollevato per aver evitato la trappola del debito. Ma se dovessi elencare qui tutte le grazie ricevute, non mi rimarrebbe più tempo per lamentarmi.
Io e la mia compagna coltivavamo la sotterranea speranza che, se avessimo passato qualche anno all'estero, al nostro ritorno i prezzi degli immobili a Dublino sarebbero tornati a livelli ragionevoli. Da questo punto di vista, le nostre speranze si sono realizzate. Ciò che ci sfuggiva, era che non poteva trattarsi di una contrazione circoscritta al settore immobiliare. Il prezzo delle case non poteva semplicemente riavvicinarsi a un normale multiplo di un reddito medio, non senza trascinare tutto il resto con sé. Una casa ordinaria potrà pure raggiungere un prezzo accettabile, ma niente può essere considerato abbordabile quando le tue prospettive di impiego sono precipitate a picco.
Da espatriati a emigranti
La svolta psicologica, per cui da espatriati ci sentivamo ora emigranti, giunse quando realizzammo che la nostra imperturbabile convinzione che avremmo sempre potuto provvedere a noi stessi autonomamente era infondata. Per qualche tempo, ci era sembrato che decisioni come dove vivere, se avere figli, cosa mangiare a pranzo, fossero tutte più importanti rispetto alla provenienza della prossima busta paga. La nostra spensieratezza per quanto riguardava l'occupazione era tale – la disoccupazione non sapevamo cosa fosse – che nel 2007 piantammo in asso due posti di lavoro di tutto rispetto per concederci un anno di viaggi. Quando un lavoro remunerativo può essere scaricato in nome dell'avventura e del "fare esperienza", è un chiaro indizio di eccessiva sicurezza.
Senza una buona ragione, partimmo per la Cina. Ci sembrò una meta tanto ingiustificata quanto qualsiasi altra, e perciò faceva proprio al caso nostro: era una destinazione completamente diversa, e gli itinerari non erano triti quanto quelli percorsi dai backpackers in Thailandia. Questo assecondava sia la nostra fame di novità, sia il nostro snobismo verso i percorsi già battuti. Guadagnavamo 100 euro alla settimana insegnando part-time in un'università ai margini dell'agglomerato di cemento di Pechino, il che mi lasciava il tempo di scrivere un libro sul rapido evolversi della Cina. Un critico navigato notò come la tradizione degli scrittori irlandesi, da sempre cronisti delle fatiche della vita degli emigranti, avesse lasciato il posto a eccentrici diari di viaggio di persone che viaggiavano per il gusto di viaggiare. "Ha ragione - dissi, - le cose sono cambiate", senza presagire quanto effimera si sarebbe rivelata l'illusoria libertà della nostra generazione. Atterrando a Bruxelles, senza un lavoro, ma con ancora qualche residuo della spavalderia da Tigri Celtiche, sfidammo la crisi globale cercando un'occupazione per guadagnarci da vivere qui, finché non avessimo avuto voglia di tornare in patria.
Crescere una belga
Ogni giorno che passa, dal 2008, la realtà ha continuato a scorrere senza riguardo. La marea è calata e non dà l'impressione di voler crescere di nuovo. Abbiamo raggiunto l'allarmante età di 30 anni. La turbolenza momentanea di cui avevamo letto in quel caffè belga si è trasformata in un continuo rumore di fondo. La prospettiva di un ritorno in Irlanda si fa sempre più remota (il che la rende tanto più desiderabile). In un mondo sempre più complesso, una semplice scelta ci si presentava nei termini seguenti: andare avanti con la vita a Bruxelles, o ritrovarsi a 40 anni ad aver aspettato un vento favorevole che non sarebbe mai arrivato? Così abbiamo messo al mondo una bambina. Sapete, per tenerci occupati. Questo ha complicato le cose, nelle più meravigliose maniere. Ma la gioia viene a braccetto con la preoccupazione. Nostra figlia si sentirà più belga o più irlandese? Moltissimi belgi di nascita non si sentono affatto belgi, perché dovremmo infliggere tutto questo a nostra figlia? Ma tornare a Dublino, ora, sarebbe un azzardo troppo grande, anche solo per essere preso in considerazione. I nostri amici negli USA, in Germania e in Inghilterra si trovano nella stessa situazione. Certamente le cose in Irlanda andranno meglio, ma spero che ciò avvenga prima che le nostre radici qui siano troppo profonde per poter essere divelte.
Foto di copertina: [noone]/ lowfi.camaiani.it/; testo (cc)citx/squarevision.livejournal.com/flickr
Translated from Ireland’s ‘accidental emigrants’