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Iraq democratico, un parto difficile

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L’incertezza e il caos minacciano le elezioni parlamentari irachene del 30 gennaio prossimo. Ma il gioco democratico riesce, faticosamente, ad andare avanti. Analisi.

Sono ben 5000 i candidati che hanno ufficialmente avviato la campagna elettorale irachena il 16 dicembre 2004. Una realtà ostacolata dall’impossibilità dei candidati di organizzare comizi, incontrare i cittadini, spostarsi sul territorio. A poche settimane dallo scrutinio, gli attacchi contro i soldati della coalizione, la polizia irachena e i rappresentanti dell’autorità si sono bruscamente incrementati causando, in tre giorni, la morte di più di cento persone, fra cui quella del governatore di Bagdad.

Nessuno può vietare un giornale oggi

Ma questa pur sanguinaria campagna elettorale ha il merito di aprire il dibattito. La sedicente “resistenza” irachena cercherà di distruggerla tutti i giorni, fino al 30 gennaio, data prevista per le elezioni, e per molto tempo ancora. Quello che i cosiddetti “ribelli” cercano di distruggere in Iraq è l’emergenza di una società civile dove ognuno possa esprimersi, anche per manifestare il proprio rifiuto delle elezioni. La fine della dittatura di Saddam Hussein ha definito, malgrado il caos dovuto alla guerra, le circostanze necessarie alla nascita dell’idea stessa di democrazia. L’attuale governo iracheno non ha più la facoltà di imprigionare gli iracheni arbitrariamente, di abolire le libertà pubbliche, di vietare giornali, di chiudere le stazioni radio, di censurare i programmi televisivi o di sciogliere i partiti politici. Il politologo Antoine Basbous, fondatore e direttore dell’Osservatorio sui Paesi Arabi, descrive questo momento come la creazione “delle condizioni di esistenza, per per la società civile, di uno spazio di libertà tra la cappa di piombo della dittatura e le cupole delle moschee”. Il barlume di democrazia che questa elezione offre agli iracheni può permettere loro di staccarsi progressivamente da questa doppia tutela.

80 Liste

Tuttavia “è la prima volta che gli iracheni godono del diritto di voto. E’ un’esperienza alla quale non sono preparati”, ricorda il quotidiano iracheno As Zaman che, per primo, si è istallato a Bagdad dopo la guerra. Secondo questo giornale, creato nel 1997 dagli iracheni esiliati a Londra, “questo scrutinio rimane per gli Iracheni un’occasione storica di voltare pagina e di far cadere tutte le maschere dei vari capi e dirigenti”. La campagna elettorale costituisce un prisma che ingrandisce le nuove libertà esistenti in Iraq. Le opinioni divergenti vengono espresse in giornali d’ogni tendenza. Per la prima volta, sin dalla creazione dello stato iracheno, ottantaquattro anni fa, vengono rappresentate tutte le correnti nell’ambito delle 80 liste depositate in vista delle elezioni dei 275 componenti dell’Assemblea Nazionale di Transizione. Un terzo di questi 5000 candidati è costituito da donne. Da notare, inoltre, che nove di queste liste sono delle liste di coalizione, fra cui la “Lista irachena” dell’attuale primo ministro Iyad Allawi, la lista “Iraquioun” (“gli Iracheni”), che include delle personalità sunnite e sciite, sotto la direzione del presidente iracheno ad interim, il sunnita Ghazi al-Yawar, e l’“Alleanza irachena unita” dell’ayatollah Ali Sistani che, oltre a sciiti, include curdi, sunniti e turcomanni. I comunisti e i monarchici hanno anche l’inedita possibilità di presentarsi alle elezioni. Inoltre, i capi curdi rivali dell’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) e del partito democratico del Kurstidan (PDK), Jalal Talabani e Massoud balzani, hanno fatto lo storico passo di allearsi su una lista unica.

La questione sunnita

Rimane il problema della minoranza sunnita che dominava il potere durante il periodo di Saddam. Dopo essersi decisi a partecipare allo scrutinio per l’apertura della campagna, la lista principale, il “Partito Islamico” di Mohsen Abdel Hamid ha scelto di invitare al boicottaggio delle elezioni. Come afferma Ariane Pashashi, leader del “Gruppo dei democratici indipendenti”, l’altra lista sunnita, la loro angoscia è vedere l’elezione “confiscata” dagli sciiti del sud e dai curdi del nord, che avranno molte meno difficoltà ad andare a votare a differenza dei sunniti del centro del paese la cui partecipazione è compromessa dall’insicurezza ambiente. A metà dicembre, il quotidiano libanese An Nahar, ha posto in evidenza, in un editoriale, le gravi ineguaglianze che potrebbero risultare da questo scrutinio. In effetti, nell’ambito del “triangolo della morte”, dove si trovano le città di Falluja, Mossul o Ramadi, è poco probabile che gli elettori arrivino a recarsi ai seggi elettorali. “Se il progetto del nuovo Iraq è quello di diventare un regime che includa le diverse etnie e religioni irachene, come potrebbe un consiglio nazionale iracheno derivare da una elezione alla quale non avrebbe partecipato uno dei gruppi sociali essenziali del paese?”, è la domanda che si pone l’editorialista Mohammed Mahmoudi. Tenuto conto del numero di etnie e di gruppi religiosi rappresentati, questa elezione condurrebbe finalmente ad una ripartizione contingentata del potere, e a termine la guerra civile fra le diverse fazioni.

Per evitare che vadano alla deriva, sta agli “esportatori” di democrazia proteggere lo spirito democratico che sta nascendo in Iraq. L’elezione del 30 gennaio è solamente l’inizio di un lungo processo. Come afferma il dottor Mahmoud Othman, curdo indipendente e rispettato membro del Consiglio di governo, “stiamo assistendo ai dolori di parto del nuovo Iraq”. Oggigiorno la palla sta nel campo della “coalizione alleata, che deve raddoppiare l’attenzione, l’intelligenza e i mezzi affinché tutto vada bene, cosicché gli sforzi di così tanti anni non vadano sprecati e che le nostre speranze non siano deluse.” La democrazia non si esporta dall’oggi all’indomani. Ai “liberatori” il compito di sapere aspettare che la nazione irachena curi tutte le sue ferite.

Translated from Accouchement difficile pour un Irak démocratique