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Io, stagista canadese ad Amsterdam (in compagnia di Pandora)

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Story by

Cafébabel

Translation by:

Andrea Alessandrini

LifestyleINTERN NATION

Questa è la storia di Katherine, stagista canadese che si è trovata a destreggiarsi tra le sfide di un tirocinio ad Amsterdam e le difficoltà e le tribolazioni quotidiane del vivere su una barca ormeggiata nei canali della Capitale olandese.

La barca si chiama Pandora, e già dal nome dovreste intuire più di quanto vi serva sapere. E' una piccola imbarcazione tozza, della lunghezza circa di un furgoncino e dipinta di un giallo sgargiante e di blu. Insomma, sarebbe a un po' esagerato  definirla "bella". Si dà il caso che abbia quello che la gente chiama in modo cortese "carattere": una piccola cabina rivestita di legno e con tende dai toni bianchi e blu con una fantasia stampata di stelle marine. Ha anche la fortuna di possedere una fedele colonia di ragni e una fiammella pilota che funziona soltanto la metà del tempo. Niente fiammella pilota funzionante, niente acqua calda. Tubi ghiacciati? Zero acqua.

Sono salita a bordo quando avevo 23 anni, nel bel mezzo di un inverno insolitamente tempestoso, candidata tanto improbabile per una vita in barca che a stento se ne potrebbe trovare un’altra meno adatta. Oltre ad essere giovane, straniera, e notoriamente maldestra, avevo passato tutta la mia vita devotamente salda sulla terra ferma. Avevo sempre rifiutato qualsiasi escursione in canoa durante i campi estivi, in crociera avevo sempre avuto il mal di mare, ed ero sempre stata una frana ai corsi di nuoto per mero dispetto. Niente di tutto questo era cambiato, ma, sinceramente, ero a corto di alternative.

Glamour di facciata e SEO

Mi sono trasferita ad Amsterdam in autunno, per uno stage presso una casa editrice specializzata in design, dove ero tanto improbabile nella veste di web editor quanto inadatta per la vita a bordo di Pandora.

Quando sono arrivata, avevo da poco lasciato un incarico estivo presso un grande quotidiano di Toronto dove, in quanto al gradino più basso di un'interminabile piramide di stagisti, ero diventata subito pratica di quella "santa trinità" della cronaca nera metropolitana: sparatorie, accoltellamenti, incidenti. I miei giorni, ma più spesso le mie notti, le passavo ad ascoltare la radio della Polizia e di fronte a degli schermi televisivi lampeggianti. Più i miei turni diventavano eccitanti (e raccapriccianti i miei spostamenti), meno ero preparata ad avere a che fare con le luci del giorno e le occupazioni ordinarie.

Ero anche leggermente spaventata: io, una bambina che aveva vissuto nella bambagia e che non si era mai confrontata con i lati più duri della vita a cui veniva assegnato l’incarico di documentare i giorni peggiori della vita degli altri. La vita mi era ben presto sembrata diversa. Non avevo sperimentato nessun lutto personalmente, ma la mia frequenza era comunque cambiata. Per la prima volta, mi ero sintonizzata con i più grandi drammi dell’esistenza.

Nessuno di questi, inutile dirlo, mi ha preparato per quella zona grigia spesso luccicante che sono l’arte e il design. Con indosso un paio di stivali da cowboy e una giacca a vento, sono stata trapiantata in quello che a volte può sembrare un enorme party, specialmente ad Amsterdam, dove le compagnie di moda e design occupano i numerosi uffici delle torri scintillanti della zona sud e socializzano sotto i lampioni vivaci lungo i canali del centro. Un gruppetto di stilisti di biancheria intima inglesi, che condividevano con me l’ufficio, mi hanno iniziato una volta di più a questo mondo e così, nei miei post su Facebook, ero diventata anch’io scintillante, grazie ai vantaggi dell’intimo gratis e dello champagne rosé.

Ovviamente, la realtà di tutti i giorni era ben diversa. Ho passato uno di quegli autunni umidi e uggiosi in una piccola stanza in un appartamento ad ovest di Amsterdam che condividevo con delle ragazze, circondata da famiglie con figli piccoli e dai rintocchi delle campane che risuonavano attraverso le nostre pareti. La stanza era tappezzata di cianfrusaglie e cartoline: scene di strada ad Amsterdam, fotogrammi di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, cannucce originali attaccate alle pareti con piccoli ananas di carta. In poche parole, la stanza di una teenager che, ormai cresciuta, si era lasciata alle spalle i ricordi della sua infanzia.

La stanza si addiceva al mio umore dell'epoca. Ero un'improbabile editor, un'improbabile affittuaria, e mi sembrava giusto che stessi occupando frammenti di vita di altre persone.

Ho visto le foto di Pandora su un sito di annunci immobiliari e poi di persona, nel corso di un’orribile burrasca  natalizia. Era ormeggiata nella periferia di Amsterdam, punteggiata di pecore, una visione rurale dell'Olanda, equipaggiata di mulini a vento e di vicini che portano fuori la spazzatura in zoccoli. Al mio arrivo, i miei futuri proprietari "di barca" mi hanno acompagnato sul loro vascello, un affare accogliente con degli oblò e un caminetto. Mi sono seduta sul loro divano mentre Yvette faceva un té e Floris allestiva l'albero di Natale, legandolo a entrambe le estremità per evitare che oscillasse con le onde.

Avrei traslocato a gennaio. A quel punto, se il mio arrivo in città poteva sembrare tratto dal montaggio di una commedia romantica, la mia permanenza si era trasformata in un qualcosa di più simile a una tragicommedia (no, non era rimasto molto di romantico). Mi mancavano i turni allo scanner privi di stile e sentivo che i livelli di stress erano più alti quando scrivevo guide per fiere d'arte, di quanto non lo fossero quando mi occupavo di crimini con armi da fuoco.

Riguardo al mondo del design, ero più scettica che mai. Non era il design in sé che mi dispiaceva, ma le proiezioni, i pieghevoli, le diapositive di cose, cose, cose – cose che non hanno mai avuto il cartellino del prezzo in bella mostra – e il mondo alternativo di cui facevano parte: credere non tanto nella semplicità e nel bello, ma negli strati che potrebbero inserirsi tra il sé e l’imperfezione, un modo per vivere lontani dai problemi, dalle tragedie, dalle piccolezze e dalla bruttezza che affliggono gli altri.

Certo, ero giunta ad Amsterdam in cerca di questo genere di vita, una perfezionista alla ricerca di quelle cose che pensavo fosse inevitabile desiderare. Mi ero avventurata su un terreno quanto mai scivoloso e instabile, quello di un glamour di facciata e del SEO, l’ottimizzazione dei motori di ricerca. Ed ero sorpresa nel constatare che non ci fosse alcuna soddisfazione o significato più profondo all'orizzonte. 

Tuttavia, ero ossessionata dal giudizio che rivolgevo a me stessa sulla strada verso l’ufficio ogni mattina. «Deve piacerti tutto questo,» avevo l’abitudine di ripetermi, in continuazione. «La gente farebbe carte false per avere tutto questo».

Una vita acquatica

Le difficoltà del vivere su una barca includevano, nell’ordine: acqua che fuoriusciva a intermittenza; chiavi cadute sul ghiaccio e recuperate con un bastone e un appendiabiti (e poi, successivamente, cadute irrimediabilmente nel lago dopo il disgelo); neve sui ripiani, sui pavimenti, ghiaccio nel lavandino, nel wc, nella doccia; una valigia sciolta dal calore della stufetta, colonie di ragni, morsi di ragni e, ovviamente, muffa a più non posso. Le traversìe che logoravano i visitatori mi rendevano sempre più innamorata di Pandora. 

La routine quotidiana richiedeva rituali elaborati e pieni di contrattempi. La stufetta della barca, la sola cosa che mi teneva lontana dall’ipotermia, doveva essere riempita di cherosene costantemente. Il processo richiedeva quattro mani, un imbuto, e l’aiuto di una grande accetta, brandita sul ponte oscillante e ghiacciato. Tutto questo avveniva puntualmente al buio. Ad Amsterdam, a gennaio, fa sempre buio.

Fare una doccia, se i tubi non erano ghiacciati, significava succhiare fuori l’acqua da una pompa difettosa. E anche quando la pompa funzionava, ciò significava stare in piedi su una lastra di ghiaccio resistente e spessa almeno due centimetri e mezzo, sotto un gocciolìo di acqua talmente moscio che praticamente potevi uscire dalla doccia asciutta come prima di entrare, soltanto più infreddolita. Preparare un pasto dipendeva dagli sforzi scostanti di un unico fornello funzionante, così preferivo far bollire la pasta nel bollitore.

Ma più di tutto, era umido. E freddo. Ho sviluppato il genere di problemi di salute che uno ha quando vive effettivamente all’aperto: raffreddori cronici, un timpano sanguinante e quello che il mio medico mi avrebbe diagnosticato come un rischio elevato nonché permanente di cancrena. Persino arrivare alla barca era un incubo: la corsa del tram dal centro di Amsterdam era abbastanza agevole, ma era solo il preludio di una passeggiata di mezz'ora su un ponte esposto ai venti e lungo una strada fangosa, bordata da un argine nebbioso, anch’esso battuto dai venti.

La camminata sembrava interminabile, ma aveva il suo fascino invernale: i capitani salutavano quando le loro chiatte di passaggio solcavano il ghiaccio sottostante, e i gabbiani riposavano sulle chiuse di notte, strillando nelle luci oleose delle barche legate lungo l'argine. E così, col tempo, la passeggiata è diventata una meditazione quotidiana, un anatema forzato contro ogni sorta di glamour, ogni sorta di design estraneo.

In primavera, la pioggia dei sei mesi precedenti ha iniziato a farsi meno intensa, anche se soltanto a tratti. Cosi, col lago intento a disgelarsi, ho sviluppato semplici abitudini, brevi pellegrinaggi: una vera e propria istigazione per i miei sentimenti solitari.

Pandora, dal canto suo, ha celebrato l’arrivo della primavera minacciando di affondare. Un sabato mi sono svegliata e ho notato una lenta infiltrazione nel bagno, ma ormai ero abituata a ogni traversìa, e quindi non mi sono lasciata prendere dal panico, ma sono andata a far la spesa. 

Quando sono rientrata, l'acqua si stava espandendo ancora di più sul pavimento. Floris, che era passato di lì per raschiare il piccolo ponte blu della barca, mi ha mostrato i tubi e gli scarichi del suo motore, per metà sott'acqua. Sapeva la sua storia a spizzichi e bocconi: costruita in Olanda intorno alla Seconda Guerra mondiale, era nata per trasportare carbone. E un tempo era addirittura appartenuta a un artista che aveva girato il Paese con lei prima di sparire in Brasile e di abbandonarla, come un gatto indesiderato.

Si chiamava Pandora. Il disgelo del lago aveva messa a durissima prova i tubi di quella vecchia ragazza! Per fortuna che era così piccola. Su una barca più grande, non si avrebbe avuto il tempo di vedere l’acqua, che sarebbe stato già troppo tardi. Non mi importava, mi sentivo rassicurata dal fatto che almeno lei potesse dare a vedere che stava affondando.

Lezioni di vita

Il mio lavoro giornaliero implicava la cura, per non dire la creazione, di fantasia: amore per oggetti che scivolavano oltre il materialismo in un ossequio divorante. E a mio personalissimo modo, ho iniziato anch’io a lasciarmi scivolare nel mondo della fantasia.

Socialmente, ero regredita all’infanzia, e il mio gruppo di amici consisteva essenzialmente in delle pecore e nei miei monologhi (e storie) abbondantemente inventati tra la nebbia delle mie passeggiate mattutine. Immaginavo la mia vita come un'odissea a bordo di Pandora, abbozzando viaggi attraverso il magico lato nascosto della città: seguendo la scia dei cigni e scivolando sotto i ponticelli dei canali, oppure pizzicando i piedi dei turisti che si baciano dopo un’intera notte in bianco.

La sera e la domenica camminavo per ore: la mia conoscenza della città migliorava col conoscere i nomi delle strade, io, un'esploratrice solitaria nascosta nel retro dei caffè. Avevo passato l’autunno come uno spettro, con la voglia di sparire in un’altra tipologia di vita, e ora ero ritornata alla solitudine e l’avevo accolta come una cosa inevitabile.

Ero una perfezionista camuffata, arrivata ad Amsterdam perché attratta dallo sfarzo. Eppure, durante quei sei mesi di quasi solitudine, mi ero agitata, disgustata dalle superfici levigate che avevo sempre ambito a creare. Avevo passato quei mesi a prendere piccole decisioni per smettere di invadere la mia vita con cose che non significavano nulla per me (come sedie costose, lampade e facili idee) per iniziare a confrontarmi con le cose più semplici.

Ad aprile, ho concluso il mio stage, mettendo fortunatamente fine alla mia frequentazione con il mondo del design di lusso. Ho passato le ultime settimane a bordo di Pandora, ormai mite tana per i suoi ragni, ondeggiando sul lago mentre le onde generate dalle chiatte di passaggio allentavano le funi che la tenevano ormeggiata alla banchina, invitandola a salpare via.

Quando ho lasciato i Paesi Bassi, non ho smesso di pensare a Pandora. Di nuovo sulla terraferma, continuo a pensare a me stessa come a una parte di un duo dal rumore metallico, battuto dai venti: una squadra imperfetta ma affascinante composta da una barca e una ragazza che scivola sui canali di Amsterdam quando le strade sono deserte e il cielo è già luminoso.

Questo è il mio mito, la mia favola. E dal momento che ogni favola ha una morale, che cosa mi ha insegnato Pandora? Mi ha insegnato che per essere buoni non bastano le buone intenzioni, oppure il senso di colpa. Ci vogliono lavoro e disciplina, gentilezza ed empatia, tanto per se stessi quanto per gli altri. Ho pensato si star affondando e che la vita adulta – nei suoi dettagli più piccoli, più banali – fosse più dura e complicata di quanto avrei mai pensato essere. Ma ci vogliono tempo e volontà per essere una persona che può pensare a se stessa, una persona che raccoglie più di quanto semini. Mi ha insegnato che questo è un mestiere che si inizia presto, sapendo che lo si continuerà per il resto della propria vita.

Così, quando penso a quello che Pandora mi ha insegnato, penso alla cosa più importante che avrei potuto imparare a 23 anni: accettare l’imperfezione e, nonostante questo, stare a galla.

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Katherine Dunn scrive su Pandora & I.

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Hanno background differenti, sono diversi e credono in cose diverse. La loro vita può andare in qualsiasi direzione, casa loro domani può essere ovunque. Ma una cosa è certa: ad un certo punto tutti quanti faranno un tirocinio. Meglio se all'estero. Intern Nation: i ritratti dei tirocinanti e delle loro esperienze in Europa.

Story by

Translated from Pandora and I: My experience as an intern in Amsterdam