Io, kazako di Paestum, vi racconto il mio Pascalistan
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Pasquale Caprino, in arte Son Pascal, da 3 anni è ambasciatore della lingua kazaka nell’immenso Paese asiatico. Senza mozzarelle, ma con una chitarra in mano. Da Paestum alle steppe asiatiche.
Quando i venti della steppa soffiano a 35 nodi, come in questa sera di mezza estate, non ci sono nubi nel cielo di Astana. I viali di questa immensa città, fondata nel ’97 dal presidente Nazarbayev sulle ceneri di Akmola, un piccolo paesaggio il cui nome significa “tomba bianca” (toponimo non proprio benaugurale, cui non a caso il presidente preferì l’attuale, più tautologico e non esattamente fantasioso Astana, “capitale”), sono scevri di ogni suppellettile: le strade trafficate ma non sovraffollate, grazie ad una lungimirante pianificazione urbana; i grattacieli ordinati ed ognuno con una sua connotazione, un significato proprio.
Incontro Pascal al Dastarkhan, ristorante georgiano vicino al Khan Shatyr, un futuristico centro commerciale disegnato da Sir Norman Foster come una yurta del XXI secolo. Dopo un abbraccio di presentazione, realizzo che mi trovo al cospetto non solo di un cantante dalla storia resa immortale dalla trasmissione di Deejay Tv “Pascalistan”, ma a tutti gli effetti di un ambasciatore: “Uagliò, sul mio nuovo visto di un anno sta scritto chiaro: per la promozione della cultura e della lingua kazaka nel mondo”. Non è un caso: in un Paese che professa come lingua ufficiale il kazako, questo è in verità parlato da meno della metà della popolazione. Anche per questo, nel suo piano “Kazakhstan 2050”, Nazarbayev ha appuntato come priorità il ripristino della lingua locale, cominciando dalle scuole e da una semplificazione che guarda ad Occidente, dato che si impegna ambiziosamente dal 2025 a sostituire l’alfabeto cirillico con quello latino.
Facebook? No grazie, meglio VKontakte
Son Pascal and Anuar Nurpeisov - Englishman in Shymkent
“Il mio pubblico in effetti è essenzialmente composto da ragazzi: se sono un fenomeno social, è soprattutto grazie a loro” continua Pasquale Caprino da Paestum, figlio di un produttore di mozzarelle ed ora noto oltre gli Urali con il nome d’arte di Son Pascal. In un mondo discografico ancora acerbo, dove in pochissimi incidono, il grosso del business viene dai matrimoni: “In questo mi sento a casa, è come a Napoli. Nella Napoli di qualche anno fa, per la precisione: voi non potete capire lo sfarzo di questi eventi”. Ma se Pascal oggi qui è una celebrità, non è certo grazie a Facebook, quanto a Vkontakte, l’equivalente sovietico della creatura di Zuckerberg.
Un concerto in un circo stanziale. A forma di Ufo
Faccia da "scugnizzo", felpa con cappuccio in testa per sfidare il gelo della seconda capitale più fredda del mondo (dopo la mongola Ulan Bator), per Pascal ogni giorno è una sfida, con il Kazakistan certo, ma anche con l’Italia. “La vita in Europa è noiosa: il Kazakistan vive oggi la sua Età dell’Oro, l’Italia quella del Ferro”, sentenzia mentre ci spostiamo verso il backstage del concerto di beneficenza che terrà all’Astana Circus, una sorta di Ufo calato sulla città a cui i locali si sono subito abituati. Qui, tra spettacoli di bimbi vestiti da leopardo e barboncini tinti di rosa, Pascal affronterà in uno scontro diretto il suo acerrimo nemico, il “Nino D’Angelo della steppa”, per dirla con lui. Ne uscirà una performance travolgente: Pascal non è uno che si risparmia, ed il pubblico si lascia guidare. “Certo” ammette “qui fa freddo, ma dopo un po’ non lo senti più: il calore della gente è più forte, e vince tutto”. Mentre lo dice, la colonnina di mercurio è scesa a 4 gradi centigradi, ed il windchill non aiuta certo nella percezione di questo calore al forestiero che veda Astana per la prima volta. “Certo, Almaty è diversa: più europea, più verde, con più storia", ricorda Pascal della vecchia capitale, "ma qui è dove succedono le cose".
Ed ha ragione. Astana sta a questo Paese come un Bignami al suo romanzo: ne è la sintesi storica in salsa cosmopolita, lo specchio riflesso del suo più recente passato, che guarda fiduciosa ad un futuro fatto di petrolio ed archistar. La città si divide, alla maniera di Parigi, in una rive gauche e rive droite: la sua Senna è il fiume Ishim. Pascal abita la riva sinistra, “così mi posso muovere a piedi”, ma spesso prende un taxi – che qui sono per il 90% abusivi, si chiamano con un segno del braccio e si pagano brevimano qualche centinaio di tenge, la valuta locale scambiata a 250 contro l’euro – per sconfinare nella riva destra, di cui ama le atmosfere semplici. Ormai Pascal è considerato a tutti gli effetti un locale: sta girando una soap-opera, dove impersona John Panzerotti, un improbabile insegnante della Nazarbayev University (sì, in Kazakistan si può intitolare un’università a qualcuno di vivente, se quel qualcuno è il presidente) in un altrettanto improbabile set kazako piuttosto spartano.
Non apolide, ma italiano nel mondo
Quando ti spiega il Kazakhstan, Pascal non riesce a soffermarsi sulle differenze più di quanto non lo faccia sulle analogie. Anche quando parla della bizzarra pratica del kokpar, una sorta di polo che come palla ha la carcassa di una pecora, e che qui è sport nazionale, Pascal lo fa in termini confidenziali, come se commentasse la partita di calcetto con gli amici del bar a Paestum. D’altronde questo Paese, per un europeo, rappresenta l’Asia più vicina, più immediata. Quella centrale, e sconfinata, ai limiti del disabitato: 16 milioni di persone sparse in quasi 3 milioni di km quadrati (in Italia la densità di popolazione è 30 volte tanto).
Ma Pascal non ha intenzione di fermarsi qui. “Sto pensando di allargarmi”, ammette, precisando poi: “ma non in Paesi che non sono molto amici degli stranieri”, e lasciando dunque intendere tra le righe che è assai più probabile che guardi a Sud, al Kirghizistan o Tajikistan, che verso la madrepatria Russia. “Essere italiano, per me, significa esserlo nel mondo: non in Italia”, chiosa.
Sul regno musicale di "Pascalistan", statene pur certi, un giorno non tramonterà mai il sole.