Incontrare Dario Fo sotto la pioggia di Milano
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(Opinione) Non capita a tutti di ripararsi dalla pioggia sotto lo stesso balcone di Dario Fo. A qualche giorno dalla sua scomparsa, il ricordo di un incontro casuale con il Premio Nobel per la Letteratura 1997.
A Milano è difficile prevedere quando inizierà a piovere. Un cielo sempre e immutabilmente grigio è come un bicchiere d'acqua riempito a metà: potrebbe significare l’inizio di un nubifragio come un’imminente schiarita. Mezzo pieno o mezzo vuoto, si tratta sempre di punti di vista.
Quel giorno, però, l’elevato tasso di umidità nell’aria rendeva facile capire che stava decisamente per diluviare, e non era questione di pessimismo. Incapace di cogliere la sottile linea tra la paranoia e il realismo, decisi di prendere la bicicletta e non la metropolitana. Pedalai verso l’università mentre mi ripetevo in mente tutti i passaggi burocratici da compiere per consegnare correttamente la tesi.
"Gabriel Garcia Marquez? L'ho conosciuto bene!"
Subito dopo aver consegnato il lavoro mi sentivo così leggera, disoccupata e felice che, nonostante avesse già cominciato a piovere, mi intestardii con la scelta della bicicletta. Sarebbe stato inutile abbandonarla al palo per appena due gocce. Dopo due minuti di pedalata però realizzai che non ce l’avrei fatta. Il nubifragio stava per abbattersi sulla città e sulla mia testa. Così mi accostai a bordo strada, indecisa se ripararmi nello spazio asciutto davanti all’ingresso di un negozio o andare direttamente a casa affrontando una sana doccia a cielo aperto. Un signore che aveva scelto di ripararsi nello stesso spazio mi fece notare che se fossi rimasta ferma in mezzo al marciapiede mi sarei bagnata del tutto. D’istinto, risposi che non m'importava: avevo appena consegnato la mia tesi di laurea. Dirlo ad alta voce mi fece sentire che era vero e mi diede mentalmente la carica per salire sulla bici, tornare a casa fradicia e ubriacarmi con la mia coinquilina. Mentre mi preparavo psicologicamente a ripartire, il signore mi chiese l’argomento della tesi. Risposi che era su Gabriel Garcia Marquez e il realismo magico. A quel punto però, lui mi ha detto: «L’ho conosciuto bene!».
Così mi sono voltata. Volevo capire com’era possibile che la persona accanto a me avesse conosciuto il premio Nobel colombiano per la letteratura, e realizzai che in effetti era possibile, perché anche quel signore aveva ricevuto lo stesso premio. Appoggiai la bicicletta al muro e mi sedetti sulle scale del negozio a parlare con quello che, sotto sciarpa, cappello e occhiali da sole, era proprio Dario Fo.
Quel giorno non avevo idea del fatto che in seguito avrei poi studiato drammaturgia, mi sarei trasferita a Roma e avrei iniziato il difficile percorso freelance nell’industria creativa – e ancora adesso mi chiedo come e perché questa cosa sia potuta succedere proprio a me.
Realismo? Meglio riderci su
Per quanto di buon auspicio possa essere un incontro casuale con una persona di cui hai immensa stima, non è ciò che ti porta a fare certe scelte di vita, così come parlare con Dario Fo per dieci minuti di Garcia Marquez, della Colombia, e della volta in cui recitò ad alta quota aspirando dalla bombola di ossigeno ad ogni cambio scena, non vuol dire averlo conosciuto davvero di persona. Eppure, quando la notizia della sua scomparsa, a distanza di tre anni, mi ha riportato alla mente quell’incontro, ho pensato che qualcosa me l’aveva insegnata. Ad esempio che bisogna prendere la bicicletta anche quando sicuramente pioverà, perché il realismo non deve impedirci di lottare per un’improbabile schiarita. Forse non vinceremo, ma può essere che saremo ricompensati.
O quantomeno, potremmo farci una risata. E come Dario Fo ha dimostrato con la sua lunga carriera artistica e politica, anche ridere – e far ridere – è un modo di lottare. La gioia del dissenso, lo sbeffeggio giullaresco, la baldanzosa ironia che smonta qualisasi mistificazione: sono queste le grandi invenzioni con cui i giornali di tutto il mondo ricordano il Premio Nobel per la Letteratura 1997 nei giorni successivi alla sua scomparsa. Come il famoso discorso all'Accademia Svedese, dove sostenne che il premio più alto se lo meritavano gli stessi membri dell'Accademia per l'ardita scleta di conferire il Nobel ad un giullare: «Eh sì, il Vostro è stato davvero un atto di coraggio che rasenta la provocazione. Basta vedere il putiferio che ha causato...».
Quando la pioggia si calmò, entrammo nel negozio alle nostre spalle per chiamare un taxi. Le commesse erano stupite quanto me della sua apparizione e credettero che io fossi sua nipote. Anche se non scambierei i miei nonni con nessun illustre intellettuale, è stato bello immedesimarsi nella parte per qualche minuto.
Quando il taxi è arrivato e lui mi offrì gentilmente un passaggio, io declinai. Se pedalare mi aveva portato a un incontro di così buon auspicio, allora non potevo proprio mollare. Nè con la bicicletta, nè con la testardaggine.