In Utero Srebrenica: il documentario di un genocidio
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L’11 luglio 1995, a Srebrenica, in Bosnia, più di 8 mila persone furono sterminate dalle truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić, arrestato nel 2011 e accusato di genocidio. In Utero Srebrenica è il racconto in immagini delle stigmate di quel dramma. Intervista con Giuseppe Carrieri (regista) e Giancarlo Migliore (direttore della fotografia).
Cafébabel: Come nasce l’idea di In Utero Srebrenica?
L’idea nasce dalla possibilità di restituire alla storia l’eroismo delle donne bosniache sopravvissute al genocidio di Srebrenica. Quello che avvenne dinanzi all’inerzia generale è purtroppo tristemente noto. Ciò che invece abbiamo voluto raccontare, è stata la resistenza post-bellica di mogli, madri, nonne, decise a non voler affidare la memoria di quella tragedia a numeri scritti col sangue. La ricerca di residui ossei dei propri cari, è stato per noi il sintomo più profondo di un amore drammatico, trasposto nella sintesi reale di una quotidianità dolorosa, viva, ancora presente, che doveva essere trasmesso in qualche modo. Alla base c’è l’esigenza di esprimere l’umanità sofferente di queste donne. Non è un reportage. È piuttosto un’inquieta poesia sulla banalità del male.
Cafébabel: Le scelte stilistiche raggiungono punte estreme di intimismo. Quali sono state le principali difficoltà riscontrate nella realizzazione del lavoro?
Il film non segue la concatenazione causale dei fatti. La narrazione è assente, o piuttosto debole. Si tratta di un percorso, ma questo non vuol dire che il racconto scompaia. Le nostre scelte si sono dovute necessariamente adattare all’estrema fragilità del contesto. Nel documentario c’è un passaggio molto significativo in cui una donna afferma che oggi in Bosnia sono tre le domande da non fare: “Che facevi durante la guerra, come sta tuo marito, come sta tuo figlio?”. A questo deve essere aggiunta l’estraneità anagrafica, quella geografica, ma soprattutto la presenza di un obiettivo. La videocamera già di per sé rappresenta un’alterazione dell’eventuale spontaneismo relazionale. La maggiore difficoltà è stata quindi la creazione di un profondo legame empatico, capace di far sentire le protagoniste del film sicure della propria condivisione. Una grossa mano ci è stata data da Fikreta, una ragazza bosniaca residente in Italia, con la quale abbiamo preparato il lavoro per circa un anno. Senza questo contatto diretto, il lavoro, se non impossibile, sarebbe stato decisamente più complicato.
Cafébabel: Com’è la situazione in Bosnia a circa vent’anni dalla fine della guerra?
La Bosnia oggi è un paese pacificato, come lo è l’intera regione balcanica. Per intenderci, non ci sono bombe o attentati. Tuttavia è innegabile il persistere di forti contraddizioni interne che non sono state risolte. La pacificazione non passa esclusivamente attraverso la ricostruzione o l’applicazione di formule politiche stabilite a tavolino, anche perché spesso la condotta degli uomini ignora gli accordi internazionali. Srebrenica è stata un mattatoio di una violenza irripetibile. Dovrebbe dunque rappresentare un monito alla coscienza di tutti, europei e non. Si è invece trasformata in un’officina se si pensa al paradosso degli accordi di Dayton, che ha di fatto lasciato la città nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. E pensando all’irrisolta questione kosovara, non è raro veder emergere nella regione gli echi di un nazionalismo aggressivo ancora latente.
Cafébabel: L’Unione europea meritava il Premio Nobel per la Pace 2012?
Preferiamo le persone reali alle organizzazioni. Avremmo preferito che il premio del 2013 fosse stato assegnato a Malala Yousafzai più che all’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC). Saremo d’accordo quando a ricevere il premio sarà una madre ruandese o una bambina yemenita che ha rifiutato un matrimonio combinato. Saremo davvero d’accordo quando a essere premiate saranno le persone reali che sono ignorate, e non le celebrità.
Cafébabel: La completa integrazione del blocco ex-iugoslavo nell'Unione europea potrebbe suturare le ferite regionali ancora aperte?
Il processo d’integrazione potrebbe sedare parte della conflittualità ancora presente nella regione, ma da qui a pensare che i problemi possano essere risolti, è illusorio. Il popolo bosniaco è stato già ignorato una volta. Fino a quando l’Unione europea non raggiungerà un effettivo equilibrio interno tra i suoi centri e le sue periferie, il rischio è che la Bosnia, anche con lo status di paese membro, possa essere nuovamente ignorata. L’integrazione comunitaria può essere un tentativo, non una soluzione.
Cafébabel: La 70° edizione del Festival di Venezia ha assegnato il Leone d’oro a Gianfranco Rosi. Qual è la percezione che il cinema italiano ha del genere documentario?
È impreparato, ecco perché a Venezia si è gridato al miracolo quando ha vinto un documentarista. Se oggi il documentario vince, è forse perché lo spettatore, quando vede un documentario riconosce che il protagonista potrebbe essere il suo vicino di casa. Siamo contenti che abbia vinto Rosi, ma non consideriamo l’assegnazione del Leone d’oro una rivoluzione copernicana, quanto piuttosto una presa di coscienza del cinema italiano rispetto al suo ritardo con altre realtà. Alcuni documentaristi italiani sono infatti molto più riconosciuti all’estero che a casa.
Vincitore del Premio Giuria Giovani al VI Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, il film ha inoltre vinto diverse rassegne internazionali, tra cui il Festival di Al Jazeera e il Festival dei diritti Umani di Ginevra. Il film è stato prodotto dalla Natia Docufilm, creata da Giuseppe Carrieri insieme a Giancarlo Migliore, Nicola Baraglia, Carlotta Marrucci e Matteo Urbinati.