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ILB: Poeti e Identità

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Berlino

L’identità è uno dei temi dominanti della decima edizione del Festival della Letteratura di Berlino. Per gli autori saliti sul palco, l’identità da sola non esiste, necessita geneticamente dell’altro per definirsi ed esprimersi.

Questa affermazione, che da un lato può sembrare scontata, nasconde invece tutta la tensione che sembra percorrere l'Europa di oggi, che corre lungo i confini più o meno visibili tra popoli e culture diverse.

Questa sembra essere l'ossessione del nuovo millennio nel vecchio continente: da un lato i risultati elettorali che garantiscono sempre maggior importanza politica a movimenti marcatamente xenofobi; dall'altro i nutriti dibattiti degli ultimi anni sulla questione della doppia cittadinanza. Per passare, poi, alle espulsioni dei Rom, che costituiscono il fil rouge di quasi tutte le politiche europee sull'immigrazione, per il resto disomogenee. È ciò che per l'estrema destra svedese, appena entrata in parlamento, è solo un sogno, ma che in Francia è già realtà. Infine c'è il fantasma della Turchia, che da decenni bussa alla porta dell'Unione. 

L'arduo compito che spetta all'arte e alla letteratura, come è evidente nel corso di questo festival, è cercare una via d'uscita, provare a dare delle risposte. La chiave di lettura più stimolante è la distinzione tra l'identità come mezzo di espressione e l'identità come arma di difesa. La prima vissuta come rapporto con il mondo e relazione con esso e con le altre identità. La seconda, invece, frutto di una cieca strumentalizzazione. Tutto ciò non è altro, in definitiva, che il confronto tra l'identità dei poeti e quella di certi politici, che la usano come strumento elettorale con lo scopo di generare paura e desiderio di sicurezza in un primo momento, per poi proporsi come l'antidoto alla stessa.

Ma giocare col fuoco è pericoloso e una bomba una volta attivata è difficile da disinnescare. Di questo ci avvertono le voci provenienti dai Balcani, come quella dell'autrice serba Borka Pavicevic, quando ci ricorda che nel suo ex-paese la politica ha lavorato troppo a lungo per divedere e, ora, persino la letteratura fa fatica a ricostruire ciò che è stato distrutto. Durante un convegno organizzato da Lage Landen a Trieste qualche anno fa, si parlò del fatto che all'università, quando si dice croato, bosniaco, rumeno, si pensa alla poesia, alla letteratura, non ai clandestini e ai reati. È questo il modello che in qualche modo bisognerebbe cercare di esportare dappertutto.

foto (c): ilb