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Il terrorismo non si vince con la NATO

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E' l'UE che ha in mano la ricetta giusta per vincere Al Qaida. A Praga, gli europei lo hanno dimenticato.

Il sipario si è infine levato sulla nuova NATO. Un'Alleanza che si allarga a sette nuovi paesi (Slovenia, Slovacchia, Romania, Bulgaria e repubbliche baltiche) e che mira ormai a combattere il terrorismo internazionale. Alla fine il punto di vista americano ha prevalso su tutta linea. Anche se con qualche contraddizione apparentemente inspiegabile.

Con l'allargamento, infatti, la NATO perfeziona l'evoluzione, cominciata con l'entrata di Budapest, Praga e Varsavia nell'Alleanza, da un sistema di contenimento (della minaccia sovietica) ad uno di stabilizzazione. Stabilizzazione di sistemi politici di recente democratizzazione, con lo scopo di aprirne i mercati ai flussi dell'economia globale, e di prepararli poi all'entrata nell'Unione europea.

Ma una membership più numerosa rallenta, per definizione, i meccanismi decisionali, rendendo di conseguenza più improbabile l'utilizzo dell'Alleanza in operazioni di ampio respiro come è stata la guerra in Kossovo del '99. D'altronde è proprio da quel momento che gli americani si erano giurati di non ripetere mai più l'errore di condurre una "guerra di comitato", nella quale bisognasse ripetutamente ascoltare le richieste francesi o tedesche di limitare al minimo le morti "collaterali" di civili. L'idea che ormai prevale a Washington è piuttosto quella di riproporre, in futuro, il modello della campagna d'Afghanistan. Quello, cioè, di assemblare, a seconda dei casi, delle coalizioni ad hoc non più basate su alleanze formali del tipo NATO. La ragione? Dopo il crollo dell'URSS, le minacce militari di portata globale sono scomparse. La NATO potrebbe quindi al massimo guidare operazioni di peace keeping, o tutt'al più guerre locali di tipo convenzionale. Da qui la proposta, andata in porto al vertice di Praga (21 e 22 novembre 2002), del segretario alla Difesa, Ronald Rumsfeld, di creare una forza di reazione rapida sotto la bandiera dell'Alleanza Atlantica.

Fin qui si tratta di un'evoluzione in gran parte annunciata da anni. Un'evoluzione che conferma l'unilateralismo di fondo della politica statunitense e la riconversione di organizzazioni internazionali antisovietiche in principio da rottamare. Poi sono venuti gli attentati di New York e Washington. Ed è in quel momento che si sono rimescolate le carte della sicurezza europea.

All'indomani dell'11 settembre, in un'avventata mossa d'azzardo, la Francia ha proposto ed ottenuto, per approfittare della situazione, l'attivazione dell'articolo 5 del Trattato fondatore della NATO. Un articolo che prevede l'azione dell'Alleanza in soccorso di un alleato attaccato. Uno degli ultimi, catastrofici, coups de théâtre dell'accoppiata Chirac-Jospin faceva così un insperato regalo a Washington.

L'iniziativa francese infatti non solo autorizzava legalmente gli Stati Uniti a dichiarare una "guerra", quantomeno postmoderna, contro degli obiettivi indefiniti (soprattutto nel numero, vedi Iraq). Ma rilegittimava anche l'esistenza di un'Alleanza Atlantica che proprio Parigi voleva ridimensionare a tutto vantaggio dei progetti europei di difesa autonoma, consolidando invece la presenza americana in Europa come incontrastata potenza regionale. Un'Europa incapace di bloccare Mohamed Atta ad Amburgo prima che si schiantasse nel World Trade Center (WTC); un'Europa vulnerabile, se è vero, come dichiarò all'epoca Chirac, precipitatosi a Washington planando sulle macerie ancora fumanti, che "tutto ciò sarebbe potuto capitare a Parigi o a Berlino"; un'Europa, quindi, ancora, disperatamente, bisognosa dell'assistenza americana.

Su queste basi, per l'amministrazione Bush diveniva un gioco da ragazzi strumentalizzare la NATO. Approfittando dell'assist francese. Di colpo nella retorica statunitense l'Alleanza ridiveniva prioritariamente difensiva. E la funzione di stabilizzazione messa tra parentesi. Il nemico? Il terrorismo internazionale.

Ma pur volendo ammettere che il fumo del WTC continui effettivamente ad offuscare la vista di Chirac e dei suoi colleghi europei, noi, media continentali, non possiamo continuare ad avallare l'impostura che è alla base della riconciliazione transatlantica magicamente ritrovata a Praga: il terrorismo non si vince con gli eserciti; Washington non è in guerra "contro il terrore". E tra l'Iraq, l'Iran e la Corea del Nord da un lato, e Al Qaida dall'altro, non vi è alcun legame di sorta. Né tantomeno tra l'11 settembre e il fantomatico riarmo di Saddam.

La verità è piuttosto che delle istituzioni europee dotate di uno scarsissimo grado di democrazia non riescono a produrre una politica estera effettiva. Che questa situazione porta ogni governo a ricercare protezione nell'aitante, quanto obsoleta - mezzo secolo dopo la débacle nazista e un decennio in seguito allo smembramento dell'URSS -, presenza di Washington in Europa. E che tutto ciò non fa che confortare gli americani nella loro deriva unilateralista a livello globale.

L'Europa, e la Francia in particolare, in quanto leader diplomatico, tra i paesi UE, ne portano la pesante responsabilità. Perché l'America ha un disperato bisogno del supporto del resto dell'Occidente, in quella che è anche una guerra volta a vincere "la battaglia dei cuori e delle menti". Ma il supporto di un'organizzazione, la NATO, in cui la maggior parte dei membri appartiene all'Unione Europea, è gravissimo. Non solo perché la strategia americana è eccessivamente militarista per un fenomeno, il terrorismo, che tutto è fuorché militare. Ma anche perché, in realtà, l'UE dispone di una contro-strategia che sarebbe ben più efficace. La strada ne è stata tracciata nel 1995 con la firma del Partenariato Euro-mediterraneo, volto a creare un'interdipendenza economica feconda tra il "regno della fine della storia" (l'Europa secondo Fukuyama) e quello dove si nutre il terrorismo internazionale (il Medio Oriente). Un terrorismo che la NATO non può vincere. E neppure l'UE, se continua ad appoggiare un'Alleanza snaturata.