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Il problema rom in Italia: nel quartiere di Ponticelli dopo i roghi

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società

Un reportage in occasione della Giornata Mondiale della Cultura Rom da Ponticelli, quartiere rom alla periferia di Napoli, per capire cosa resta dopo i linciaggi, i roghi, i presidi e le evacuazioni forzate.

A Ponticelli, nei giorni di pioggia, il rumore dell’acqua che s’infrangeva sui tetti delle baracche si sentiva fino al centro. Dei tredici campi rom che circondavano la periferia napoletana a maggio 2008, ne sono rimasti tre, forse quattro. La fuga degli “zingari”, da queste parti si fa sentire nella maniera più naturale: via le roulotte, distrutte le baracche, finito il rumore di lamiere che infastidiva il vicinato.

«Li abbiamo mandati via»

Gianni, alla richiesta d’indicazioni sulla via Virginia Woolf, ha precisato: «Se andate per i rom non troverete nulla. Li abbiamo mandati via. Abbiamo bruciato tutto dopo che sono fuggiti». Del rogo di maggio i giornali nazionali hanno parlato poco. Di come siano stati presi uno per uno, bambini, uomini, vecchi, donne, portati fuori dalle abitazioni e costretti alla macchia. Qualcuno si è allontanato solo pochi metri aspettando che la rabbia degli italiani si assopisse per vederli poi, invece, ritornare di notte e consegnare alle fiamme quello che non avevano distrutto il pomeriggio. Dalla sua kampina (come spesso i rom chiamano la roulotte, ndr) sono visibili i segni dell’incendio appiccato lo scorso 13 ottobre all’accampamento che si trova sotto il ponte dell’autostrada A3 Napoli-Salerno. «Ci vogliono mandare via tutti. Tutti. Non ci vogliono più. Con la forza: “Andate via! Andate via!”, urlano. Mi hanno ricominciato a chiamare “Ladro di bambini”. Anche mio padre lo chiamavano così ma poi avevano smesso. A Napoli stavamo bene». A Napoli stavano bene, lo ripete più volte. Sono stati bene finché una ragazza rom non è accusata di aver cercato di “rubare” un bambino. Dopo l’episodio, avvenuto a Ponticelli lo scorso 10 maggio, l’intolleranza della popolazione verso i nomadi, che vivevano da anni nella periferia della città, è sempre più violenta, sostenuta dalla propaganda populista e razzista del partito della Lega Nord al Governo.

Il Pacchetto Sicurezza: schedature e evacuazioni

Dalla passata primavera si sono susseguiti presidi, evacuazioni e schedature su tutto il territorio della penisola, da Milano a Foggia, da Napoli a Roma in decreti ed iniziative prese a livello amministrativo e che sembrano trovare il consenso popolare. Nico tiene in braccio sua figlia Sara – «Sara è la madre del popolo Rom» – mentre racconta della sua vita da zingaro nell’ultima metà di anno: «Volevano prendere le impronte ai nostri bambini, ma perché? Sono bambini, vivono con noi. Viviamo alla stessa maniera. Non sfruttiamo i nostri figli». Sara allunga la mano con il palmo rivolto verso l’altro: è il gesto del manghel: a solo un anno di vita sa già come chiedere l’elemosina. Le viene data una monetina ma la ripone sul tavolo indicando invece, con le dita, la penna. «È di carità che viviamo. Se potessimo lavorare, se qualcuno ci offrisse lavoro non chiederemmo l’elemosina. Ma forse, anche se avessimo lavoro, la chiederemmo comunque: è così che si è rom. È in questa maniera che è cresciuto mio nonno, e il nonno di mio nonno, mio padre. Così stanno crescendo i miei bambini. Porgere la mano chiedendo aiuto non è rubare. Vivere tra i ratti, senza il bagno e con le zecche addosso non è divertente. Tu che mi guardi vedi un ricco che si diverte a fare il pezzente?». “Il pezzente” lo pronuncia in napoletano, «U’ pzzent’». Nico lo sa bene quello che si dice sui gitani: finti poveri che posseggono grandi ricchezze. «Ci sono quelli che hanno i soldi. Ci sono i delinquenti, qui a Napoli ce ne sono tanti. E anche i napoletani che rubano li chiamano “zinka’r”. Sono pochi, o sono tanti: non lo so. So che spesso non ho da mangiare, che non mi posso lavare, che sono stato picchiato, che la gente mi guarda male, che guardano le mie bambine e mia moglie come condannate. Se Anna va fuori per l’elemosina e fa tardi esco a cercarla: “ecco”, penso, “l’hanno arrestata per sfruttamento di minore e ora mi portano via le mie bambine”», continua.

Prima di entrare nella kampina, Anna e la figlia si tolgono le scarpe, Julia mette le monete davanti al dad (papà in romanè), abbandona i cornetti non venduti su una sedia. Poi, sorride. Nico si alza a guardare cosa sta succedendo fuori: «Stanno partendo altri sei», un’Ape Piaggio risale la strada che porta verso il centro carica di pacchi e persone, «tornano in Romania. Prendono un pullman che costa poco». I pullman sono quelli organizzati dall’agenzia Atlassib sparsa su buona parte del territorio europeo con destinazione Bucarest. In Italia ogni sera alle 23.30 parte una corsa da Taranto che attraversa la penisola e lascia tra l’Ungheria e la Romania decine di badanti e rom. «Io non torno a Costanza (città rumena sulla sponda del Mar Nero, ndr). Non ho i soldi per pagare quattro biglietti e non voglio. Berlusconi non dovrebbe mandare noi in Romania ma prendere dalla Romania gli italiani che rubano e allungano le mani così», piega le dita punta l’indice di fronte e il pollice in alto a simulare una pistola, «Boom!».