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Il limbo dei tifosi ungheresi: il calcio tra passione, ultras e business

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Striscioni neo-nazi, comportamenti razzisti e atti di violenza costellano le cronache sul Ferencvárosi ("Fradi", per i tifosi), il più prestigioso club di calcio dell'Ungheria. Abbiamo indagato le ragioni di questo estremismo, ma anche come il giro d'affari influenza il tifo e il sistema attuale. E ci siamo chiesti: esistono dei tifosi in grado di vivere la passione per il Fradi in modo diverso?

Quando vuoi incontrare qualcuno, prima di tutto bussa alla porta di casa. Per il football club del Ferencvárosi la "casa" si chiama Groupama Arena, uno stadio moderno inaugurato alle porte di Budapest nel 2014 grazie a un investimento pubblico di 15 miliardi di fiorini (circa 48 milioni di euro). Mi lascio alle spalle l'aquila in metallo, simbolo della squadra, e mi preparo alla visita guidata.

Storia, sicurezza e business

Alla reception la hostess risponde timorosa quando chiedo informazioni sui supporter: «Abbiamo tifosi normali. E tifosi pazzi. Quelli pazzi,» spiega, «rifiutano le nuove norme di ingresso, che prevedono una tessera». Qui la tessera del tifoso include la scansione biometrica del palmo di entrambe le mani, introdotta dalla società BioSec, oltre a funzionare da bancomat per gli acquisti all'interno dello stadio.

La visita inizia con le Skybox, pochi metri quadri per migliaia di euro di affitto all'anno: qui le aziende personalizzano il loro attico dove discutere di affari, tra divanetti e superalcolici. Nulla di più distante dalla passione e dai patemi d'animo del tifoso. Tomasz è la mia guida: sotto una pioggia costante e lieve, ci affacciamo sul manto erboso del campo, verde intenso come le tribune con i colori sociali del club. «Ho libero accesso allo stadio,» dice Tomasz, «ma ho acquistato un abbonamento per il settore C-2. Durante le partite voglio sia chiaro che sono qui per la squadra. Prima viene il "Fradi" (come chiamano il loro club, n.d.r.), poi il lavoro». Nel Fradi Muzseum aprire gli armadietti con le maglie da gioco è come sfogliare un libro sugli ultimi 100 anni di storia ungherese: dal nazismo al capitalismo, passando per il comunismo, quando la squadra cambiò nome e colori. Il museo confluisce nella boutique, dove si possono acquistare divise ufficiali, asciugamani, portachiavi e bottiglie di pálinka biancoverde.

Se il merchandising rende felici alcuni, allontana persone come Attila Boro dall'amore per il calcio. Impiegato nella logistica, 27 anni, Attila vive il tifo in un limbo tra passione e disincanto: «Prima ero quasi sempre allo stadio. Non mi considero un ultras,» precisa, «ma loro mi hanno insegnato molto. Oltre alla fede nella squadra, hanno valori profondi come lealtà e fratellanza. Non sono angeli, ma neppure dei criminali come li dipingono». Sulla dirigenza le critiche sono aspre: «Vogliono schedare le persone. Estromettono la classe meno agiata alzando i prezzi dei biglietti e criminalizzando chi non si adatta. Preferiscono chi ha soldi da spendere. È uno dei motivi per cui non vado più allo stadio».

Stadio da sogno, una security da incubo

Se a casa non trovi nessuno, bussa alla porta dell'amico. O del nemico. Salgo su un bus diretto a Felcsút, paese natale del Premier Orbán. Si gioca la sfida di campionato tra Ferencvárosi e Puskás Akadémia. Nel mezzo della brughiera ungherese, emergono i contorni fiabeschi di questa mini-cattedrale del calcio. Sugli spalti ci sono poliziotti in assetto antisommossa e oltre 200 agenti di sicurezza.

Tra loro, in tenuta paramilitare, una decina di omoni dalle teste rasate dirige le operazioni. «Sono a busta paga del Ferencvárosi per intimidire i suoi stessi tifosi. Spesso sono ex ultras, qualcuno con precedenti penali,» mi spiegano. Aspetto che arrivino i bad boys a sfogarsi tra canti e fumogeni. Supposizione errata. Gli ultras non arriveranno mai: proseguono il boicottaggio contro la società. Sugli spalti solo uno sparuto gruppo di tifosi, che a malapena intona i cori. L'atmosfera si spegne presto e la partita finirà in pareggio a reti inviolate.

Dove sono gli ultras?

«Il contrasto tra ultras e società è ampio. L'obiettivo è far rimuovere il Presidente del club, Kubatov,» recconta Gábor Csekey, che dal 2008 cura il sito Ulloi129. Creato per informare la tifoseria e sostenere la squadra durante la retrocessione in seconda divisione, il sito conta oltre 20 mila accessi giornalieri e migliaia di commenti. L'origine dello scontro, per Gábor, risale al 2013: «Un centinaio di ultras è entrato nello stadio per esporre uno striscione in sostegno di un criminale nazista. Molte aziende hanno minacciato di annullare le sponsorizzazioni, se la società non avesse preso provvedimenti».

Più che isolare gli estremisti per motivi politici e di dignità, si tratta di preservare gli interessi che legano a filo doppio aziende, squadra e il partito di Governo, Fidesz, di cui Kubatov stesso è parlamentare. «Gli estremisti non sono più di un centinaio, ma trascinano migliaia di ragazzi, spesso inconsapevoli dei messaggi politici che veicolano». Durante le partite in casa viene montato uno maxischermo all'esterno dell'Arena. Un compromesso per non esasperare gli spiriti già bollenti degli ultras. «Uno ad uno,» secondo Gábor, «torneranno allo stadio. Forse ci vorrà un anno o forse dieci. Chi può saperlo?».

Il Fradi allo stato puro

All'altezza della penisola Margit-Sziget, incontro Péter Molnár. In una zona dove molti ebrei trovarono rifugio dai rastrellamenti nazisti, la nonna di Peter si convertì al cattolicesimo per salvarsi. In camera sua Peter custodisce una collezione di oltre cento sciarpe, decine di spillette, libri e un album che straripa di biglietti e foto-ricordo. Tutto targato Fradi. Mi mostra con orgoglio un pezzetto della statua di Josef Stalin, abbattuta nel '56 durante la rivoluzione d'ottobre e raccolto dal nonno prima che i carri armati sovietici marciassero su Budapest. Una reliquia.

Péter ha le idee chiare: «Un ragazzino vede gli ultras divertirsi e girare il Paese, spesso ubriachi. Questo può essere magnetico. Avrei potuto farne parte,» continua, «ma preferisco di no. Se i leader dicono qualcosa, devi farlo. Nonmi convince. Sono in grado di pensare da solo». Poi si sofferma su violenze e striscioni filonazisti: «Allo stadio dovresti comportarti come fai per strada. Va bene sfogarsi perché sei stressato dalla vita e dal lavoro. Ma se non esporresti uno striscione nazista in strada o davanti a una sinagoga, perché pensi di poterlo fare allo stadio?». Al contempo, Péter è stufo dello stadio vuoto, presidiato dalla security anziché dai tifosi. «Ci mancano,» precisa, «ci manca l'atmosfera e ci mancano i ragazzi». Guardo Péter e capisco cos'è l'amore per una squadra allo stato puro. Forse ossessivo, ma innocente e lontanissimo dal business e dalla stupidità che ormai circonda gran parte degli stadi europei.

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Questo articolo fa parte della serie di reportage EUtoo 2015, un progetto che cerca di raccontare la disillusione dei giovani europei, finanziato dalla Commissione europea.