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Il grande assente delle elezioni israeliane

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Pur rimanendo sempre al centro dell'attualità, il conflitto israelo-palestinese è rimasto ai margini della campagna elettorale. 

Martedì 17 Marzo i cittadini israeliani sono chiamati alle urne per rinnovare il parlamento. Il primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu, alla ricerca di una disperata rielezione, sembra sia riuscito a frenare la caduta libera del suo partito (Likud) grazie ai toni aspri ad aggressivi soprattutto in tema di politica estera: il suo discorso tenuto al Congresso degli Stati Uniti ne è il più chiaro degli esempi. Secondo gli ultimi sondaggi, Netanyahu potrebbe essere riconfermato grazie ad una nuova coalizione con piccoli partiti conservatori ed religiosi, anche qualora il Likud dovesse prendere meno voto rispetto all’Unione Sionista, l’alleanza del partito laburista e dei centristi di Hatnuah. L’Unione Sionista, che comunque sembra ancora in testa ai sondaggi, ha basato la sua campagna elettorale sul malcontento creato dalle politiche economiche del governo: le pesanti critiche all’iper-liberismo di Netanyahu e alla sua incapacità di fornire soluzioni soddisfacenti su temi critici come il crescente costo della vita, l’educazione e il welfare, hanno focalizzato il dibattito quasi totalmente sulla sfera socio-economica.

Una vistosa assenza: la Palestina

Quello che si nota e che, almeno a prima vista, potrebbe essere sorprendente è l’assordante silenzio su una questione spinosa: nessun partito israeliano ha incentrato la propria campagna sul conflitto israelo-palestinese. Persino Netanyahu, che ha fatto della sicurezza del paese uno dei punti chiave della sua campagna elettorale, ha toccato la questione solo marginalmente. Il primo ministro uscente, infatti, ha preferito puntare tutto sulla minaccia iraniana (non certo una novità, basti ricordarsi del celeberrimo discorso sulla linea rossa all’ONU) piuttosto che concentrare le proprie attenzioni sui territori occupati. Eppure Netanyahu, che ha cercato in tutti i modi di guadagnare i voti del centro-destra con un atteggiamento estremamente provocatorio in materia di politica estera, non fa certo mistero del sostegno che il suo partito dà alla costruzione di nuovi insediamenti in quello che dovrebbe essere, un giorno, lo stato palestinese.

Forse il conflitto Israelo-Palestinese non rappresenta più il punto focale di tutto il Medio Oriente? Forse con l’emergere di nuovi problemi – leggi l’ISIS - esso è passato in secondo piano?

Una possibile spiegazione

Apparentemente potrebbe sembrare una spiegazione logica e legittima, ma è forse una maniera un po’ troppo sbrigativa per liquidare una questione che ha caratterizzato (e insanguinato) gli ultimi sessant’anni di storia del Medio Oriente: le analisi sono, come ogni cosa che riguardi Israele, sfaccettate e complesse, ma cerchiamo di capire brevemente quali sono le ragioni di questa assenza.

In primo luogo, la guerra a Gaza dell’estate scorsa ha cambiato notevolmente l’opinione pubblica israeliana. Soprattutto tra i giovani, l’idea che sia stata una guerra inutile e che la soluzione vada trovata con altri mezzi sembra diventare maggioritaria. E soprattutto Netanyahu non ha alcun interesse a riportare alla luce quella che, se militarmente non è stata certo un successo, mediaticamente è stata una disfatta.

Un altro importante aspetto che contribuisce a spiegare questa assenza è il fatto che sul fronte palestinese, il governo israeliano è di fatto ad un punto morto. Dopo il ritiro da Gaza di ormai dieci anni fa, le questioni in sospeso non sono numerose e il conflitto sembra essersi congelato. Un’eccezione, pur significativa, può essere trovata nella questione degli insediamenti in Cisgiordania. Netanyahu e il suo partito, in caso di vittoria, continuerebbero a sostenere i coloni e le loro provocazioni, a dispetto di ogni accordo di pace. Se invece nessuno dei due grandi blocchi dovesse raggiungere la maggioranza assoluta – e non è un’ipotesi irrealizzabile – nessun tipo di intesa sarà probabilmente possibile sulla questione palestinese e le cose rimarranno così come sono fino a nuove elezioni.

Ma in generale i partiti israeliani non sembrano particolarmente sensibili alla faccenda e, di fatto, propongono alternative molto simili. Lo smantellamento degli insediamenti esistenti è fuori discussione – ovviamente fanno eccezione, tra i maggiori partiti, la Lista Araba Unita e Meretz, partito di sinistra di secondo piano – e anche lo stop alla costruzione di nuovi insediamenti può essere un argomento insidioso. Se infatti l’Unione Sionista all’inizio della propria campagna elettorale aveva timidamente accennato alla necessità di mettere un freno ai coloni, strada facendo essa ha dovuto desistere in quanto i sondaggi hanno mostrato che il tema non sembrava incontrare il consenso degli elettori.

L’interesse principale di Israele in questo momento, considerando l’instabilità endemica della regione, è quindi congelare il conflitto. Così facendo, inoltre, i rischi per il nuovo governo saranno minimizzati, visto che non sarà vincolato a promesse fatte in campagna elettorale. Alla luce di queste considerazioni, dunque, non può sorprendere più di tanto che la questione palestinese durante questa campagna elettorale sia totalmente passata in secondo piano.