I rifugiati in Ungheria: cronaca di una distopia
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Alessandra MoscaL'Ungheria non pensava di dover affrontare la più grave crisi migratoria, avvenuta sul suolo europeo dalla Seconda guerra mondiale. Tristemente abituato all'emigrazione dei propri cittadini, il Paese non era pronto ad accogliere grandi masse di profughi. È stato detto di tutto sulla "disumana reazione ungherese": questo discorso deve essere in parte ridimensionato.
Prima ancora che il problema attirasse l'attenzione del resto d'Europa, il Governo ungherese di Viktor Orbán si era distinto, sin dall'inizio, per il suo approccio radicale: una campagna di affissione shock a maggio per far crescere la paura (di cui la società civile ha facilmente approfittato), l'innalzamento di una barriera di filo spinato alla frontiera serba, l'invio di truppe armate... Rimasta isolata a causa dell'inerzia degli altri Paesi europei, di fronte ad un problema troppo grande, l'Ungheria si è divisa. Da un lato, coloro che sono andati in panico davanti alle centinaia di persone che camminano lungo i binari con i bambini in braccio. Dall'altro quelli scossi dalla catastrofe umanitaria, che hanno deciso di reagire.
All'inizio del mese di agosto, c'erano oltre 2 mila persone a manifestare contro l'innalzamento del muro, con i risultati che conosciamo. I giornalisti hanno iniziato ad affluire, cosi come le storie, di giorno in giorno più tristi, più struggenti. «Noleggiano treni interi per far sbarcare tutti a Budapest e fasi registrare», mi ha detto in quel momento, con voce inespressiva, una conoscente che tornava dalla frontiera. «Arrivano in massa dalla stazione, se non lo vedi non ci credi».
Agosto: quando la miseria bussa alle nostre porte
«Se non lo vedi non ci credi». Questo mantra ci ha accompagnato per settimane, impossibile sottrarsi. Non capita tutti i giorni di assistere alla miseria che bussa alla tua porta. La barriera magica dello schermo azzurrino non stabilisce più quella distanza confortevole. Anzi, rende le cose ancora più difficili, col gran flusso di foto e di articoli sinistri, pronti ad assalirci ad ogni accenno di connessione. D'un tratto, non si parla più della Siria o dell'Afghanistan ma della stazione ferroviaria, qui, a due fermate di metro.
Allora, alla fine, ho visto tutto. All'inizio senza intervenire, senza fare foto, senza parlare. Alla stazione Keleti, ho visto il calore, la folla, l'attesa carica di angoscia e di disagio. Intanto, i politici blaterano. Intanto, si smette di fare affidamento sul Governo, troppo occupato a sistemare il filo spinato alla frontiera. Abbiamo affrontato il problema di petto. Associazioni come Migration Aid o la Croce Rossa prendono in mano la situazione, chiedendo donazioni, domandando e ricevendo aiuto: scatoloni di vestiti, scatolame, centinaia di braccia che ordinano, selezionano, distribuiscono. Chi presta l'auto per portare qualcuno all'ospedale senza allontanarlo dalla famiglia, chi porta palloni da calcio, peluche, giochi da tavolo, fogli e matite colorate per tenere occupati i bambini e far passare il tempo. Si cercano continuamente caricabatterie, sapone, conserve, pannolini.
La municipalità di Budapest sembra rendersi conto del problema. Per esempio, ha attrezzato le zone di transito con bagni pubblici e rubinetti di acqua potabile, ma sembra non sia sufficiente. Ci sono ovunque montagne di vestiti donati da catalogare, da cui bisogna estrarre, a seconda del bisogno, una giacca più spessa, della biancheria intima o una polo, fingendo di non accorgersi dei ragnetti che ne fuoriescono. Pile di scatole piene, ammassate alla meno peggio, pronte ad essere inviati ai diversi campi, che minacciano di crollare. E poi ogni giorno, nuovi arrivi, nuovi bisogni. Il tempo non è mai abbastanza, neanche appena sufficiente.
Settembre: Angela Merkel e i treni presi d'assalto
Poi è arrivata la prima settimana di settembre e la situazione si è surriscaldata: tensione e paranoia. Il 1° settembre i poliziotti impediscono ai rifugiati di salire a bordo dei treni senza essere debitamente registrati, provocando così una prima reazione. L'indomani, la MÁV (la compagnia ferroviaria ungherese) decide di sopprimere tutti i treni diretti ad ovest, a Vienna principalmente. Proteste generali, blocchi, ancora tensione. Il transito, che già non poteva definirsi fluido, si intasa seguendo il ritmo infernale degli arrivi quotidiani. I telegiornali trasmettono immagini apocalittiche di una folla inospitale, ammassata contro le porte della stazione, che mostra i pungi e sfida la Polizia. Qualcuno parla di "sommossa". Si inizia a mormorare, tra i volontari presenti sul posto, che il canale TV governativo abbia ricevuto l'ordine di non filmare né donne né bambini: solo uomini, preferibilmente furiosi e dall'aria minacciosa. Davanti alla stazione il formicaio è lo stesso di notte e di giorno, l'atmosfera carica d'incomprensione e di paura, ma tutto resta comunque in equilibrio, nonostante qualche scintilla.
Il 3 settembre un treno, annunciato in direzione di Sopron, presso la frontiera austriaca, è immediatamente preso d'assalto e riparte pieno zeppo. Finirà per fermarsi a Bicske, a 1 ora da Budapest, dove si trova uno dei più grandi campi di rifugiati del Paese. Le immagini inverosimili di poliziotti che costringono decine di persone a scendere, trascinando per i piedi quelli che si aggrappano disperatamente, fanno il giro del web. Nel frattempo, Angela Merkel ha annunciato che la Germania avrebbe accolto 800 mila rifugiati, dando adito a grandi speranze. Nelle stazioni risuonano le grida «Help us Germany», «Hungary let us go» (Aiutaci Germania, Ungheria lasciaci andare, n.d.r.). Ma i treni restano al binario.
Venerdì 4 settembre, più di 400 persone si mettono in marcia sfidando le autorità. Ironia della sorte, una partita per le qualificazioni agli Europei 2016, Ungheria contro Romania, fa temere attacchi da parte degli hooligan contro i migranti in marcia e contro coloro che sono rimasti alla stazione di Keleti, dove un neonato ha visto la luce il giorno prima. Qualche attacco c'è stato davvero. Dei medici volontari racconteranno in seguito di aver fatto da scudo umano ad alcuni rifugiati per evitare che fossero pestati. Quella è la sera in cui le dighe cedono: si noleggiano autobus in tutta urgenza per trasportare più di 3 mila persone in Austria. Si recuperano quelli che sono già in cammino, a volte anche dopo 200 chilometri percorsi sotto la pioggia. Per un po' la situazione, per quanto critica, resta sotto controllo.
Da allora, della stazione di Keleti, se ne parla un po' meno, ma l'atmosfera è ancora effervescente. Ora bisogna provvedere a inviare tutte le donazioni verso il luogo che è diventato ormai il centro dell'attenzione: il campo di fortuna stabilitosi a Röszke, non lontano dalla frontiera con la Serbia. Le storie continuano, come quella della fuga disperata attraverso i campi per sfuggire alla registrazione forzata delle impronte digitali. Il 15 settembre l'esercito ungherese è arrivato sul posto per impedire con la forza il passaggio, dunque dalla Serbia si prova a puntare verso la frontiera croata, poi quella slovena, e l'esodo continua.
"Sarà stato solo un brutto sogno..."
Al di là dell'effervescenza, ciò che sorprende davvero è vedere come il problema possa essere facilmente ignorato. Spingendosi oltre i dintorni della stazione, sembra che quasi niente sia cambiato o ne sia toccato. Il festival dello Sziget si è svolto come previsto, non senza un interessante parallelismo con i rifugiati: due situazioni estreme, due mondi coesistenti contro la loro volontà, si sono incrociati tra arrivi e partenze.
Coloro che non abitano nella Capitale immaginano una città messa a ferro e fuoco, incollati alla tv che mostra sempre le stesse immagini di stazioni che non si svuotano. A volte, nel momento meno opportuno, si mormora tra i denti al timore del Grand remplacement (una "teoria del complotto" che paventa la sostituzione della popolazione francese con cittadini provenienti dall'Africa, n.d.r.), a dei terroristi fondamentalisti infiltrati. La Germania e il Regno Unito sono presi di mira perché, protetti dagli accordi di Dublino, sembrano ben felici di lasciare che l'Ungheria se la cavi da sola. Ma l'empatia ha comunque la meglio sul panico. Chi è stato nelle stazioni rievoca spaventato le decine di bambini «che giocano sulle scale, quando a quell'ora dovrebbero essere a letto». Come nel resto del mondo, ci si è stizziti contro la giornalista Petra László e il suo sgambetto nel bel mezzo di un reportage (guarda il video sotto), seguendo il flusso legittimo di collera provocato da un simile gesto.
«Magari domani ci svegliamo e sarà stato solo un brutto sogno», sento dire da un padre con un bambino piccolo: una sorta di eco immaginaria di ciò che molti genitori potrebbero pensare nel momento in cui sollevano il filo spinato per far entrare il proprio figlio nell'area Schengen.
La maggior parte dei media ha deplorato il modo "ungherese", cosi disumano, di affrontare la situazione. A costoro bisogna rispondere che no, come al solito non aiuta nessuno fare di tutta l'erba un fascio. Bisogna smetterla di glorificare la reazione tedesca nella misura in cui essa non fa che denigrare il comportamento ungherese. Non bisogna rinnegare o dimenticare tutti quelli che, nonostante i fallimenti e le difficoltà, si battono sin dall'inizio affinché l'umanità resista alla propaganda. No, Petra László non è l'Ungheria. E Viktor Orbán neanche.
Translated from Les réfugiés en Hongrie : chronique d’une dystopie