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I nodi irrisolti

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I nodi, prima o poi, arrivano sempre al pettine. LUE è stata obbligata a scioglierne due, molto intricati: la PAC e i fondi strutturali. Lo ha fatto attraverso il tradizionale compromesso comunitario.

Con la ratificazione del trattato di Nizza in corso, lUE non aveva più scuse per non portare a termine il compito che si era data negli ultimi anni, e ammettere al suo interno i dieci paesi candidati dellEuropa centro-orientale con data 2004.

Il referendum irlandese aveva pero' temporaneamente distolto lattenzione del pubblico da quelle che erano le altre irrisolte questioni sul tavolo della Commissione e dei governi dei 15: la riforma della PAC e dei fondi strutturali. Il vertice di Bruxelles, celebrato i passati 24 e 25 ottobre, era lultima chiamata per evitare un imbarazzante stallo.

Ad una prima lettura della situazione, sembra che gli Stati membri avessero voluto tenersi per sé tutto, e non lasciare che gli Stati candidati potessero godere di uno status di piena appartenenza allUnione, con tutti i costi e i benefici che ciò comporta. Ciò sembra quantomai moralmente e politicamente disdicevole, dato che i dieci candidati stanno sostenendo tutti i costi necessari per riformare la propria struttura economica, e potrebbero vedere i propri sforzi frustrati dallimpossibilità di usufruire di tutti gli aiuti, strutturali e agricoli, cui un membro dellUE ha diritto. In ogni caso, questa è solo una parte della verità, dato che il nocciolo della questione non è tanto quanto pagare, ma chi deve pagare, a prescindere dallammontare della somma. In altre parole, il problema è stato come affrontare quella che è stata una vera e propria resa dei conti allinterno dellattuale UE.

Da una parte, infatti, vi erano quegli Stati che pensano di star pagando troppo per un bilancio comunitario esiguo ; questi Stati sono i principali contributori netti, ovvero Germania, Svezia e Olanda, con in aggiunta la Gran Bretagna, sempre recalcitrante, dai tempi della Thatcher, a destinare risorse alle politiche europee. Dallaltra vi era invece un consistente numero di Stati che non accetta nella maniera più assoluta dei tagli agli aiuti che riceve; tra questi il più agguerrito è stato la Francia.

Allinterno delle posizioni nazionali si celavano rancori e insoddisfazioni mal sopportabili, dato che tutto poteva essere rimesso in gioco. La Francia è stanca di vedere che la Gran Bretagna ancora gode di uno speciale sgravio per contribuire di meno al bilancio comunitario, soprattutto in una fase in cui ognuno dei 15 dovrà fare degli sforzi supplementari.

La posizione della Germania, a prima vista comprensibile, perde di valore ad unanalisi più profonda delle conseguenze dellallargamento, che metta in luce come i maggiori beneficiari saranno proprio i paesi più grandi e quelli confinanti con i nuovi membri: Germania in primis, dunque, ma anche Francia, Austria e Gran Bretagna. Infine, è indubbio il tentativo per il rieletto premier svedese Persson di frenare gli animi antieuropeisti allinterno del suo stesso governo, dato che il referendum per lentrata nellUEM e nelleuro, suo cavallo di battaglia, è ormai prossimo.

La prima bozza di accordo univa Francia e Germania su un documento che in pratica congelava, dal 2006, le risorse disponibili non solo per la politica agricola, ma anche per i fondi strutturali. Questa è stata la dimostrazione più evidente del tentativo, soprattutto francese, di distribuire il costo dellallargamento tra tutti, in parti uguali, senza tener conto delle differenze nelluso delle risorse comunitarie; lobiettivo era rendere il costo maggiormente accettabile in patria, facendo vedere che tutti facevano i loro bravi sacrifici. La risposta dei paesi di coesione, con la Spagna in testa, è stata molto rigida: i fondi strutturali e la politica agricola sono due cose diverse, e non vanno mischiate luna con laltra.

Al di là della difesa dellinteresse nazionale, è effettivamente vero che i fondi strutturali sono un falso problema; laumento della spesa strutturale derivante dallentrata dei paesi candidati nel 2004 ammonta ad una somma compresa tra i 20 e i 40 miliardi di euro. Le stime effettuate da vari economisti, e dallautore di questo articolo, dimostrano che i valori più probabili sono quelli tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Questa importante conclusione indica che, a contributi agricoli invariati, la spesa aggiuntiva per i fondi strutturali rientrerebbe nei limiti delle risorse a disposizione del bilancio comunitario, attraverso lutilizzo di riserve già predisposte allo scopo. Ci sarebbero addirittura le risorse per non abbandonare le attuali regioni destinatarie dei fondi per un periodo di almeno dieci anni. Daltra parte indebolire la politica strutturale (una politica ridistributiva) europea sarebbe decisamente insensato proprio quando i divari interni aumenteranno di colpo con lentrata di Stati molto più poveri della media comunitaria.

Dato che nessuno è stato disposto a dare maggiori risorse al bilancio comunitario, la riforma della PAC è stata dunque obbligatoria. In quale direzione? È proprio su questo punto che nellUE è carente un dibattito serio sulla natura e il merito di una esaustiva ristrutturazione del settore agricolo.

Il compromesso firmato a Bruxelles indica il blocco degli aiuti agricoli nel 2006, con il risultato che la stessa torta andrà divisa tra 25 e non più solo 15; il particolare non secondario è che i paesi candidati riceveranno solo un misero 10% degli aiuti, ovvero una fetta molto sottile di questa torta.

Non sarebbe effettivamente stato corretto applicare integralmente lattuale sistema protettivo dellagricoltura ai paesi candidati, dato che i sostegni diretti al reddito fomenterebbero una drastica sovraproduzione, mentre linnalzamento dei prezzi avrebbe un effetto devastante sul potere acquisitivo dei salari, con problemi sociali non indifferenti. È altrettanto vero, però, che applicare due pesi e due misure a nuovi e vecchi appartenenti al club è ingiusto e rafforza limmagine della PAC come un sistema discriminatorio ed elitario. Ciò che andava cercata era una soluzione che avesse potuto essere applicata a tutti, e che avesse bloccato la spesa agricola trovando, attraverso una nuova normativa, una soluzione ai problemi causati dallattuale disciplina (scoraggiamento degli investimenti, sovraproduzioni, danni ambientali e sanitari, scarso sviluppo dellagricoltura biologica, prezzi alti, barriere allimportazione).

La riforma della PAC, inoltre, sarebbe stata ben vista da molti come un preludio ad un suo progressivo sgonfiamento, per dar vita invece ad una politica di incentivi a coltivazioni sostenibili a lungo termine e allagricoltura biologica. Lauspicio è quello di aprire i mercati agricoli europei ai prodotti dei paesi sottosviluppati, i quali avrebbero notevoli vantaggi in termini di diversificazione, mentre i consumatori europei godrebbero di una rafforzata competenza. Tutto ciò in una prospettiva di atterraggio morbido e soprattutto di salvaguardia delle produzioni tipiche locali e di quelle di migliore qualità. Il dibattito europeo attuale, purtroppo, non contempla affatto questa opzione.

Un punto è chiaro: i sacrifici economici che gli Stati membri sono costretti a sopportare sono minimi, a maggior ragione rispetto allimportanza della posta in gioco, e soprattutto la politica strutturale non ha nessuna ragione di essere ridimensionata, dato che le risorse, a dispetto delle paure (spesso indotte) di molti europei.

Cosa pensano i paesi entranti di questo compromesso? Non aver trovato un accordo soddisfacente per loro sarebbe come fare le nozze con i fichi secchi: un duro colpo alla credibilità e allimmagine del progetto Europa.