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I governi contro le opinioni

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La divisione dell’Europa sul dossier iracheno fa il gioco delle vecchie classi dirigenti nazionali. Mentre la riforma della PESC stagna tra i banchi della Convenzione.

L’Europa è divisa. Questa sembra essere la percezione comune a proposito della posizione dei Quindici sulla crisi irachena. E ciò, nonostante quell’improbabile unità affettata durante il Consiglio Europeo straordinario del 17 febbraio, le cui ambigue conclusioni hanno sigillato, ancora una volta, il trionfo del compromesso diplomatico al di là delle divergenze di fondo. “L’Europa è unita” è stato il grido (grottesco ed ignorato) del Presidente della Commissione Romano Prodi in quell’occasione.

Divide et impera

Ma il fossato c’è, ed ha cominciato a scavarsi molto prima. Proprio all’indomani delle pompose manifestazioni di Versailles con le quali, il 22 gennaio, Francia e Germania avevano festeggiato i quarant’anni di un’amicizia pure determinante per tutta la costruzione europea – era stato infatti Donald Rumsfeld, il segretario americano alla Difesa, ad aprire le danze con una spettacolare scelta di tempo. Per lui Berlino e Parigi erano i rappresentanti di una “vecchia Europa” ormai discreditata per il suo inutile dissenso con gli Stati Uniti, cosa ben diversa rispetto alla “nuova Europa” tutta cromata, dinamica e – cosa più importante – pronta ad inchinarsi alle richieste USA.

Il 30 dello stesso mese la “new Europe” in persona rispondeva all’appello. Con una lettera affidata alla stampa di mezzo mondo, i dirigenti di Spagna, Gran Bretagna, Italia, Danimarca e Portogallo da un lato, e di Polonia, Repubblica Cèca ed Ungheria dall’altro, sottolineavano il loro appoggio di principio alla linea di Washington a proposito dell’Iraq.

Ma l’avanzata dell’Europa “americana” non finiva qui. Il 6 febbraio era la volta del gruppo di Vilnius (1) che, con una lettera – preparata ironicamente prima del discorso col quale Powell ha presentato lo stesso giorno le “prove” contro Saddam – dichiarava il proprio appoggio alle argomentazioni dell’amministrazione Bush.

Ma il momento della verità è arrivato il 14 febbraio al Consiglio di Sicurezza. In quell’occasione si è cicatrizzata l’opposizione tra Spagna e Gran Bretagna da un lato, unici membri del Consiglio, con gli USA, ad appoggiare un’eventuale risoluzione che autorizzi l’uso della forza contro il regime iracheno, e Francia e Germania dall’altro, fermamente contrarie a una tale risoluzione, insieme a tutti gli altri membri.

L’Europa è quindi divisa, e la Casa Bianca può allora sperare di guadagnare quell’appoggio europeo senza il quale la gestione dell’Iraq post-Saddam (ricostruzione, investimenti, rifugiati etc.) potrebbe divenire più pericoloso dell’Iraq odierno.

Ma mentre l’affermazione della classica politica cesariana del divide et impera è assolutamente in linea con la tradizionale realpolitik americana, la divisione dei governi europei cozza con la spettacolare unanimità dell’opinione pubblica della (vecchia o nuova, Mr. Rumsfled?) Europa.

Secondo un recente sondaggio, infatti, l’80% dei cittadini europei sono “contrari ad un intervento militare degli Stati Uniti in Iraq senza l’avallo dell’ONU”. Il sondaggio, realizzato su un campione di ben 15.000 persone in 30 paesi del continente, indica anche che questo dato scende di soli 6 punti se si considerano unicamente le opinioni dei paesi candidati, da più parti additati come i “nuovi, rampanti cavalli di Troia di Washington in Europa” (2), e comunque si stabilizza su un valore pari al 78% se consideriamo tutti i paesi che formeranno l’opinione pubblica europea del 2004. Non solo, come non tener conto dei cinque milioni di cittadini che hanno riempito le piazze d’Europa il 15 febbraio per protestare contro l’eventuale guerra in Iraq?

Insomma l’Unione Europea è più unita che mai. Sono i dirigenti che non tengono il passo.

Interessi comuni?

Come spiegare allora questo cronico scollamento tra le posizioni di molti stati e le loro opinioni pubbliche? Al giorno d’oggi è praticamente impossibile per un paese europeo definire in modo autonomo la propria politica estera su una questione di vitale importanza per Washington. La domanda che si pongono gli stati nazionali in questi casi non è se un’azione è o no conforme con i propri interessi, ma se sia necessaria o meno per allinearsi agli Stati Uniti, cioè per servire i loro interessi.

Coi 130.000 militari ancora nel Vecchio Continente e i 150.000 già intorno al regime di Bagdad, gli USA rimangono in effetti la potenza regionale, allo stesso tempo, in Europa e in Medio Oriente. Gran Bretagna, Spagna e Italia - e tutta la "nuova Europa" - devono agli Stati Uniti, e non all’UE, la loro sicurezza nazionale. Così come la maggioranza degli altri membri dell’Unione.

E quando uno stato europeo arriva a smarcarsi da Washington, o è perché è riuscito a conservare un minimo di sovranità nel campo della difesa, come la Francia, che pure, al momento opportuno, non esiterà ad arrualarsi alla coalizione che si profila, per determinare i nuovi equilibri del dopoguerra; oppure, come nel caso della Germania, è per delle mere ragioni di politica interna, visto che Schröder deve la sua sopravvivenza politica al mantenimento di quella posizione pacifista che gli ha valso la fragile vittoria dell’ottobre scorso.

Ma parlare di diversi gradi di dipendenza dagli USA non vuol dire parlare di genuine divergenze d’interessi. In realtà gli interessi dei diversi stati europei in Medio Oriente sono convergenti. L’Europa è in effetti di gran lunga più vulnerabile degli Stati Uniti rispetto all’immigrazione illegale proveniente dal Mediterraneo e ai flussi di rifugiati, più dipendente ancora dal petrolio della regione e gravemente minacciata da reti terroriste che proprio in Europa hanno trovato, per parafrasare la denominazione di una delle più tristemente conosciute, la loro “base”.

Come tale l’Europa non può che rifuggere l’ipotesi di un’altra guerra in una regione già insanguinata da mezzo secolo di un conflitto israelo-palestinese terribilmente costoso per l’Unione. Un’ipotesi i cui rischi sono esplicitamente paventati dalle conclusioni del Consiglio Europeo del 17 febbraio, che pure costituisce il primo testo nel quale l’UE evoca la possibilità di ricorrere alla forza, seppure come ultima ratio.

Ma allora perché l’UE non parla con una sola voce? A parte l’atlantismo, il problema è istituzionale. La PESC non funziona perché si basa su una struttura essenzialmente intergovernativa. Una struttura che tende quindi ad esasperare delle differenza nazionali che, nella crisi irachena come sulla questione israeliana, non sono il frutto di genuine divergenze di fondo ma di un differente peso specifico di ogni cancelleria nei rapporti con Washington. La divisione internazionale è la piaga della PESC. Essa è una manna per l’impero americano.

Certo – si direbbe – c’è la Convenzione. Ma si dà il caso che, nell’indifferenza generale, il suo 7° Gruppo di lavoro, sull’“Azione esterna” abbia reso noto il 16 dicembre scorso un Rapporto Finale che, senza proporre molto di più di qualche principio fondatore per il futuro “Trattato costituzionale” (sic), si limita ad evocare la fusione delle attuali funzioni di Rappresentante per la PESC e di Commissario per le Relazioni Esterne.

Ma ciò di cui ha bisogno la PESC non è di più confusione dei poteri. Come insegna Schumpeter, delle istituzioni equilibrate si basano su un conferimento chiaro e preciso dei poteri d’azione e di quelli di controllo. E’ chiaro che l’organo europeo capace di agire in politica estera sulla base di una legittimità, almeno indiretta, delle urne (come proposto da Francia e Germania alla Convenzione), non può che essere la Commissione (3); e che i poteri di controllo dovrebbero spettare ad un parlamento bicamerale che comprenda l’attuale Consiglio ed un Parlamento Europeo i cui membri siano finalmente dotati di quella funzione di cui sono ancora, scandalosamente privati: il diritto di iniziativa legislativa. Una tale soluzione "democratica" è, per il momento, lontana anni luce dalle bozze che circolano nella mani di Giscard d'Estaing. Ma dovrebbe essere la base di partenza per rendere efficace una PESC che è adesso anche illegittima.

La “nuova Europa” è un artificio scollato dalla realtà dell’opinione pubblica europea. Essa è figlia di un’anacronistica ed inutile divisione istituzionale tenuta in vita, colpevolmente, da classi dirigenti che temono di essere spazzate via da una purtroppo ancora remota democratizzazione della istituzioni europee.

(1) Albania, Bulgaria, Croazia, Repubbliche Baltiche, Macedonia, Romania, Slovacchia e Slovenia.

(2) Cfr. Adriano Farano, “L’Atlantico ad Est” in “Allargamento: obiettivo 2004”, café babel, 24 ottobre 2002.

(3) Nella proposta franco-tedesca non si propone però minimamente di conferire alla Commissione i poteri di definire la PESC.