I giovani che lottano per il clima piacciono solo se non attaccano nessuno
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Li abbiamo visti in tutti i TG, sulle prime pagine dei giornali, negli approfondimenti politici e, spesso, anche nei luoghi istituzionali. Da qualche anno le loro facce giovani e le loro parole d’ordine ci sono divenute familiari, e chiunque sembra aver capito l’urgenza della questione ecologica che Fridays for Future (FFF), Extinction Rebellion (XR) e una miriade di altre piccole e grandi realtà hanno portato all’attenzione del pubblico. Insomma, FFF e XR sembrano benvoluti da tutti. Ma è davvero così? A ripercorrere alcuni fatti occorsi nell’ultimo anno, è più che lecito porsi la domanda.
ENI è una multinazionale italiana fra le più conosciute al mondo. Si tratta di una società partecipata al 30 per cento dallo Stato Italiano, ed è un leader dell’energia e degli idrocarburi in Italia. È il 13 maggio 2020 e, mentre si tiene l’Assemblea annuale degli azionisti di ENI, una compagine di qualche decina di attivisti e attiviste organizza una protesta presso la sede romana dell’azienda. Sono i primi giorni della fase 2 dell’epidemia: qualche restrizione viene allentata, alcune attività tornano a essere consentite. Tra queste, quelle sportive. Gli attivisti decidono di organizzare una sessione di running di gruppo presso il laghetto artificiale in vicinanza del palazzo della multinazionale. Tutti i partecipanti indossano una t-shirt con la scritta “Corro contro il vostro gas”. Fin qui nulla di trascendentale. La giornata finisce senza strascichi. Copertura mediatica? Poco o niente.
Quando l'attivismo ambientalista dei giovani non piace
Poi, la sorpresa. Settimane dopo, molti tra gli attivisti scoprono di essere stati multati per “violazione delle disposizioni vigenti" anti Coronavirus, nonostante il fatto che, nel giorno in cui si era svolta la protesta, l’attività non violasse alcuna di queste disposizioni. Si potrebbe pensare senza alcuna remora all’azione di qualche funzionario particolarmente intransigente, o alla violazione accidentale di una serie di limitazioni. E probabilmente è stata anche l’interpretazione della stampa italiana, che di questa vicenda non ha raccontato nulla.
Eppure lo schema si ripete. Qualche mese dopo, l’8 ottobre 2020, Fridays for Future ed Extinction Rebellion, nell’ambito della Settimana internazionale di Ribellione lanciata proprio da XR, mettono in campo tre azioni coordinate a Roma. La prima si svolge in centro, per denunciare pubblicamente il governo italiano incapace, secondo i movimenti, di rispondere adeguatamente alla crisi ecologica. La seconda mobilitazione avviene a Piazza dell’Esquilino, dove un gruppo di persone mette in scena un’azione di “nuda verità”, spogliandosi per lanciare ai media un appello affinché raccontino la verità sulle questioni climatiche. La terza azione mette nel mirino, ancora una volta, ENI.
Thomas è uno dei formatori alla “resistenza civile non violenta e all’auto-organizzazione” che ha preso parte all’azione: "Una settantina di ribelli, di cui dieci incatenati, hanno bloccato una delle entrate della sede ed evidenziato le bugie di questa enorme e inquinante azienda di Stato". Il presidio dura oltre 50 ore, nel pieno rispetto delle vigenti disposizioni in termini di contenimento del contagio.
Passano alcune settimane, ed ecco il deja vu. Decine di multe vengono recapitate a persone che, nella maggior parte dei casi, non erano nemmeno state avvicinate e identificate dalle forze dell’ordine. Nel dettaglio, si tratta di multe per cifre intorno ai 400€ per mancato distanziamento sociale. Il risultato? Gli attivisti di XR, incorsi in ben 41 sanzioni, sono al momento indebitati collettivamente per 16400€.
Fatti, non pubblicità
Le vicende di maggio e ottobre 2020 sollevano molti interrogativi. Tanto per cominciare, è interessante notare la differenza di trattamento in funzione delle restrizioni legate alla pandemia. Per molti mesi lo spazio pubblico è stato occupato dai movimenti no mask, dalle immagini di assembramenti - anche molto grandi - riportate dagli organi di informazione, volti a contestare, talvolta con metodi poco democratici, l’operato del governo; o ancora dall’azione provocatoria di importanti leader politici che hanno più volte - e in favore di telecamere - violato ogni tipo di misura di contenimento. I giovani che si impegnano per il clima risultano essere gli unici sanzionati per violazioni dalla dubbia sussistenza.
Inoltre, è interessante rilevare come, ancora una volta, nessuno tra i principali organi di stampa abbia riportato questi fatti. A questo va affiancato un dato: sulle pagine dei principali quotidiani italiani di ogni colore politico, è praticamente impossibile non imbattersi in paginoni dedicati a pubblicità a firma Eni. Nel 2019 l’azienda ha investito 73 milioni di euro in “pubblicità, promozione e attività di comunicazione”. Si tratta di una cifra che rasenta la metà di quella complessiva investita in attività correlate all’economia circolare, il cuore dell’identità mediatica che il cane a sei zampe sta faticosamente costruendo da anni.
Per contestualizzare, è importante sottolineare che l’azienda abbia da tempo adottato un approccio green nella propria comunicazione. I prodotti comunicativi, il profilo pubblico, gli spot televisivi e lo stesso sito internet raccontano di un’impresa impegnata in un colossale processo di riconversione, che dovrebbe porre al centro della propria azione lo sviluppo di energie e tecnologie alternative, l’abbandono delle fonti fossili, l’economia circolare. Secondo alcune associazioni si tratta di tante parole, ma poca sostanza. A Sud Onlus ha strutturato un vero e proprio lavoro di dossieraggio per mostrare come ci sia ben poco di green nella svolta dell’azienda. Già lo scorso anno gli stessi gruppi giovanili lanciavano la campagna #CiAvvelEni e, al grido di “ENI Climate Killer”, hanno cominciato a raccontare una verità alternativa a quella patinata proposta dall’azienda. Era una verità che parlava di devastazioni ambientali in Italia e nel resto del mondo, di presunta corruzione oggetto in questo momento di procedimenti giudiziari, di bioraffinerie che utilizzano materie prime di origine naturale, ma facendole arrivare dall’altra parte del mondo.
L'eccezione che conferma la regola
Insomma, la chiara definizione del proprio profilo green pare essere una delle priorità dell’impresa e, salvo importanti eccezioni, l’operazione sembra riuscire perfettamente. L’importante eccezione è Il Fatto Quotidiano: il giornale, per impostazione, non accetta nessuna sovvenzione da parte di privati per le pubblicità. Sulle colonne della testata è sempre possibile leggere notizie sull’operato di ENI, sulle vicende processuali che la riguardano e su alcune zone d’ombra della sua azione. Tuttavia, quest’attività di cronaca pare non essere gradita. L’impresa ha intentato causa al giornale per danneggiamento della propria immagine pubblica e ha richiesto un risarcimento di 350mila euro, cui ha affiancato la richiesta di una sanzione pecuniaria comminata direttamente al direttore, e quella della restituzione dei presunti introiti dell’illecito arricchimento dovuto alla divulgazione delle notizie in oggetto. A corredare il tutto, la richiesta della cancellazione dal web di tutti i contenuti sgraditi. Gli articoli in questione sono 29, tra questi: inchieste, cronache politiche, interventi pubblici, commenti, schede, approfondimenti e addirittura calendari giudiziari. Ogni singolo elemento del materiale denunciato non è interpretabile come diffamatorio in sé, e pertanto possibile oggetto di querela. La denuncia dell’impresa è complessiva, riguarda il racconto che il quotidiano conduce.
“È una causa del tutto inusuale nel capo delle richieste di risarcimenti per eventuali diffamatori", spiega Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto Quotidiano. "L’Eni contesta infatti una campagna denigratoria e diffamatoria su larga scala, che ha assunto i caratteri di una vera e propria campagna politica”. Eni ha fatto sapere che la citazione è rivolta “contro il giornale in quanto entità di informazione, non all’eventuale danno subito da una specifica diffamazione”, ragione per la quale è comprensibile anche l’attacco diretto al direttore, Marco Travaglio, “sapiente regia” della presunta campagna. L’operazione dell’azienda è quindi quella di politicizzare il contenzioso, invece di riferirlo a “fatti determinati, verificabili e giudicabili”.
"Una evidente intimidazione preventiva"
Cannavò contesta l’impianto della causa, così come le sue articolazioni, ritenendola “una evidente intimidazione preventiva”, volta a impedire il racconto della verità e che colloca Eni in un campo, “quello dei poteri forti che non tollerano critiche, controlli e limitazione al loro agire da parte della stampa libera”. La posta in gioco, secondo il vicedirettore, è piuttosto elevata, e si tratta dell’autorevolezza della libera informazione. “Accusare ogni articolo che viene scritto come parte di una deliberata campagna politica svilisce l’apporto professionale del redattore, che parla con le fonti, legge gli atti processuali, mette in relazione le varie parti”, e la causa civile fa gioco perché, fintanto che la vicenda giudiziaria non giunge a termine, chi è oggetto del provvedimento resta sospeso in un limbo. Si tratta di un livello di pressione molto elevato, che può incidere sull’operato anche dei giornalisti più risoluti. “Al Fatto esiste la copertura legale integrale anche per i collaboratori, ma un freelance o un giornalista non coperto, leggendo la denuncia di Eni, non rischierebbe di mettersi a indagare sul colosso energetico, così come su qualsiasi altro gigante economico e finanziario”.
Alla luce di questi fatti, risulta più comprensibile la denuncia di FFF ed XR e la richiesta agli organi di informazione di raccontare la “verità”. Oltre al già citato flash mob di Roma, XR ha condotto un’azione di protesta sul tema a Torino . Lo scorso 18 settembre a Piazza Castello è stato organizzato un presidio volto a sensibilizzare la stampa. L’azione è arrivata dopo molti tentativi di mettersi in contatto con i direttori delle locali edizioni dei principali quotidiani, e ha portato a una manifestazione in piazza. Anche in questo caso l’atto di disobbedienza è costato otto denunce penali ad attivisti e attiviste di Extinction Rebellion, con l’accusa di “accensioni ed esplosioni pericolose” durante la manifestazione (Art. 703 del codice penale) per l’utilizzo di un fumogeno per 40 secondi complessivi, e di “inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità” (Art. 650 del codice penale) per non essere scesi dalle colonne della piazza quando era stato loro richiesto. Il colmo? Dalle colonne erano scesi, appena raggiunti dalla stampa, precisamente dal capo redattore del Corriere di Torino. Ma delle denunce seguite, del contenuto della giornata e di altre azioni di disobbedienza civile, nemmeno l’ombra in nessun giornale.
Un attacco coordinato?
“Le forze dell’ordine non sono un nemico”, precisa Alessandro Giannì, responsabile campagne di Greenpeace, da sempre vicina e sostenitrice dei movimenti giovanili. Ciò che contestano non è tanto la singola multa, piuttosto il sospetto che si tratti di un attacco. “Risulta lesa la libertà delle persone di potersi esprimere. È vero che con provvedimenti di questo genere non ammazzi o metti in galera nessuno, ma si tratta di una risposta non commisurata ai fatti al momento osservati”.
Secondo Giannì, i giovani colpiti hanno risposto adeguatamente, rendendo pubblica la vicenda e presentandola come una questione politica: “Il nostro Paese non può tollerare questo livello di repressione del dissenso. A essere colpiti sono ragazzi che si sono messi in gioco per il pubblico interesse, è giusto che al pubblico chiedano supporto”. I due movimenti hanno infatti lanciato campagne di crowdfunding per pagare le multe, incassando il sostegno della parte dell’opinione pubblica che, senza alcun supporto mediatico, sono riusciti a raggiungere, oltre che di molte organizzazioni provenienti dal panorama ecologista italiano.
Ma è altrettanto grave, sostiene ancora Giannì, il silenzio. “Sarebbe utile che i giornali fossero coerenti con quanto dicono, e smettessero di scimmiottare a parole il The Guardian, rinunciando, per esempio, agli introiti pubblicitari di chi è ancora legato allo sfruttamento di fonti energetiche derivate da fossili”.
L'attivismo ai tempi del Covid-19
Un attacco di questo genere rischia di mettere in ginocchio questi movimenti, composti perlopiù da giovani e giovanissimi, senza alcun tipo di sostegno economico e fondati sulla buona volontà e sulle energie di chi li anima. E, come se non bastasse, la possibilità di mobilitarsi o attivare nuove energie è diventata ancor più difficile, considerato il contesto drammatico della pandemia. Se per due anni i movimenti sono stati al centro dell’informazione, anche di quella mainstream, adesso risultano isolati in una battaglia molto più grande di loro. Sembra tutto così lontano da quello che accadeva poco più di un anno fa. Tra il 2018 e il 2019 abbiamo assistito a una mobilitazione planetaria, diversificata, che si è imposta nel dibattito pubblico.
Clelia è una studentessa di Filologia, letterature e storia del mondo antico alla Sapienza. Si è avvicinata ai Fridays for Future a partire dal primo sciopero su scala globale del 15 marzo 2019, quando tra i collettivi e le assemblee universitarie fremevano i preparativi di quella che doveva essere una grande manifestazione di piazza ma che superò di diverse spanne ogni aspettativa. "Non ci aspettavamo senz'altro 300 mila persone, tanto che avevamo un furgoncino minuscolo con un'amplificazione inadatta ai numeri del corteo”. Le prospettive sembravano rosee, i tre scioperi globali in Italia hanno registrato numeri molto alti, ma poi è arrivato il coronavirus. La partecipazione è calata.
Eppure, il movimento ha saputo reinventarsi. Il 24 aprile 2020 c’è stato il quarto sciopero globale, “il primo in forma digitale”. Il contesto aveva ridotto la possibilità di mobilitarsi. “Non potevamo vederci e non potevamo scendere in piazza, e neanche avremmo voluto farlo durante la prima fase dell’emergenza sanitaria”, continua Clelia. Non ne mancavano però le ragioni: “Durante il lockdown, abbiamo notato come l’incapacità che avevamo individuato nella gestione della crisi climatica si rifletteva anche in quella sanitaria". Questo ha condotto al lancio di Ritorno al Futuro, la campagna promossa da FFF che ha raccolto le adesioni di molte altre organizzazioni della società civile, per chiedere al governo “una transizione ecologica che si fondi sul principio della giustizia climatica”. L’obiettivo dichiarato è la gestione del Recovery Fund, che può essere trasformata nell’inizio di un reale cambiamento. “Questi soldi”, spiega Clelia, “sono un debito che la nostra generazione dovrà ripagare. È inaccettabile che vengano utilizzati per finanziare banche e soliti noti grandi inquinatori”.
Con l’arrivo dell’estate e la fine della prima ondata, i Fridays for Future hanno lasciato temporaneamente gli schermi per tornare all’attivazione e alla partecipazione fisiche: sono riprese le assemblee in presenza e anche gli appuntamenti di piazza. L’inizio dell’autunno li ha visti protestare per il diritto allo studio, proclamare un nuovo sciopero globale - il sesto, che si è tenuto il 9 ottobre 2020 - e partecipare e organizzare una serie di iniziative cittadine dedicate a questioni locali (diritto allo studio, trasporti pubblici, questioni abitative e riqualificazione urbana).
La pandemia non ha dunque arrestato i percorsi di mobilitazione per il clima. Forse li ha rallentati, sicuramente ha imposto una ridefinizione di pratiche e rivendicazioni, ma, oltre a essere un impedimento logistico oggettivo, è stata anche uno strumento per consolidare l’esistente, annullare il distanziamento sociale mantenendo quello fisico, costruire altre forme di interazione, supporto e sostegno.
"Abbiamo avuto modo di sperimentare quanto il nostro movimento sia resiliente"
Un simile processo è avvenuto per Extinction Rebellion, che ha sfruttato l’occasione per cambiare le modalità di incontro e cooperazione. “Fare resistenza civile", dice Thomas, "richiede di scendere in strada e le giuste misure di distanziamento sociale rendono tutto più difficile”. Difficile, ma non impossibile: “Fare riunioni online e perdere la possibilità di creare empatia dal vivo ha sicuramente scosso anche noi, ma abbiamo avuto modo di sperimentare quanto il nostro movimento sia resiliente”. La chiusura totale è infatti stata, per il gruppo, lo stimolo a ripensare la propria strategia, guardando al proprio interno. Dopo la fase espansiva dell’anno precedente, il lockdown ha comportato un ripiegamento del movimento volto a sistematizzare quanto conquistato.
Finita la prima ondata, anche XR è tornata nelle piazze: ha lanciato la Settimana della Ribellione riprendendo, dove l’avevano lasciata, la pratica della disobbedienza civile non violenta. E proprio le azioni degli ultimi mesi hanno consegnato un quadro mutato, purtroppo non soltanto in termini di partecipazione. Da un lato c’è l’attenzione mediatica, drasticamente calata, non solo per l’imposizione di una nuova emergenza. Il silenzio generale ha favorito e coperto le dinamiche di rappresaglia a scapito di attivisti e attiviste. Le multe e le denunce, la quasi completa assenza di un riscontro mediatico, raccontano esattamente questo.
Che fine hanno fatto le prime pagine, gli incontri istituzionali, le trasmissioni televisive? La riduzione dello spazio pubblico dedicato ai due movimenti è realmente figlia di una fase complessa, in cui un altro tema si è imposto all’ordine del giorno, o le evoluzioni subite li hanno resi meno appetibili agli organi di informazione, togliendo loro uno spazio che era più facile tributargli quando, in fondo, non attaccavano nessuno in particolare?