Guerra di Gaza, tra Israele e Europa il muro dell’incomprensione
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Da Gerusalemme a Sderot, gli israeliani lamentano l’atteggiamento pro-palestinese dell’opinione pubblica europea insieme a gravissimi atti antisemiti. E avvertono: «Con Hamas non si può dialogare». Foto-reportage.
Nell’Israele di questi giorni i (rari) visitatori possono ammirare il Muro del Pianto a Gerusalemme e scoprire la barriera di protezione costruita da Sharon nel 2005 con lo scopo di arrestare i kamikaze. Ma anche percepire un’altra separazione: quella tra opinione pubblica europea e israeliana sull’operazione Piombo Fuso, lanciata il 28 dicembre scorso e volta a bloccare il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza. «Persino all’indomani del cessate il fuoco unilaterale proclamato dal premier Ehud Olmert (il 18 gennaio ndr), The Independent parla d’invasione israeliana», accusa un alto responsabile del Ministero degli Esteri. Di più. «Leggo El País tutti i giorni e non riesco a capire perché dica che la nostra capitale è Tel Aviv quando tutti sanno che è Gerusalemme (dal 1967, ndr»), spiega X, attivista del partito di sinistra Me’eretz.
«Hamas? Non vuole il dialogo, ma l’annientamento di Israele»
Le radici del malessere? Si snodano qui a Sderot. Che, con Ashkelon, Beer’Sheva e gli altri centri israeliani circostanti, è stata bersaglio di nove mila razzi dal 2001. Troppi per un’opinione pubblica che sostiene al 78% l’operazione contro l’organizzazione terrorista Hamas, che ha assunto il controllo della Striscia aggiudicandosi le elezioni del gennaio 2006 – ottenendo 74 seggi su 132 al Parlamento – e azzerando il dissenso con la forza. «Se chiedete agli israeliani dove si leva il sole al mattino dubito che si possa ottenere la stessa percentuale», scherza Gidi Grinstain, esperto di strategia a capo del noto think tank Reut Institute. Ma perché non negoziare con Hamas come suggeriscono alcuni leader europei come l’italiano Massimo d’Alema? «La maggior parte dei mussulmani sono moderati. Alcuni “fattori radicali” (Hamas, Al Quaeda, la Jihad islamica e altri…) come gli shiiti radicali rappresentati dal regime iraniano e dalla sua branca libanese (gli Hezbollah), rappresentano una seria sfida, non solo per Israele», spiega Avi Melamed, analista politico israeliano. «Il loro radicalismo dipende dal fatto che credono di essere spinti da Dio il che rappresenta una trascendentale, non negoziabile e infallibile verità. L’obiettivo ultimo della loro ideologia – un califfato globale – è inscritto nella volontà di Dio. Il termine “pace” in questo contesto è totalmente irrilevante».
Europa, antisemitismo punto e a capo?
«È orribile andare a letto tutte le sere sapendo che dovrai alzarti almeno tre volte durante la notte», dice Ariel, ventiseienne che ha studiato a Sderot tre anni. Nella macabra mostra allestita al commissariato di polizia locale ci spiegano che «il lancio di razzi è triplicato da quando, nel 2005, l’allora premier Sharon impose il doloroso ritiro dei coloni da Gaza». «Cosa direste se su Parigi piovessero migliaia di razzi in pochi anni?» – argomenta Ariel . «Perché allora l’Europa reagisce così?». Così? Il riferimento è alla mancanza della maggior parte dei Paesi europei di un sostegno ufficiale all’operazione: solo la Presidenza cèca dell’Ue, nelle prime ore dell’operazione, aveva parlato di «guerra difensiva». E non solo. Il 14 gennaio ha fatto scalpore lo slogan usato in una manifestazione anti-israeliana ad Amsterdam: «Hamas, hamas, gli ebrei nelle camere a gas». E ancora a Roma, qualche giorno prima, il presidente di una piccola associazione di commercianti aveva invitato a boicottare i negozi tenuti da ebrei (considerati i più vecchi abitanti della città eterna).
Restando a parlare qui, nei bar trendy di Tel Aviv dove la vita continua frenetica fino alla città bersaglio di Sderot passando per la magica Gerusalemme, la domanda nasce spontanea: perché gli israeliani hanno così bisogno dell’approvazione internazionale quando la percezione offerta dalla propria diplomazia appare spavalda ed incurante delle critiche? «La risposta è semplice», spiega Grinstein: «Israele è un’isola immersa in un mare di ostilità. E la nostra madre patria sono l’Europa, l’America, l’Asia. Perciò, ogni legittimazione internazionale a livello pubblico è fondamentale per la nostra sicurezza e il nostro benessere». «Non solo. Rispetto al mondo arabo è importante mantenere questo tipo di atteggiamento», spiega Ariel, studentessa in scienze politiche. E ancora: «la storia, ragazzi, la storia».
E se Israele comunicasse sul cambiamento profondo intervenuto quanto all’opportunità, ormai riconosciuta dalla stragrande maggioranza prima dell’opinione pubblica e poi dei suoi dirigenti, di uno Stato palestinese? Risponde Ariel: «Lo facciamo già. E se l’America ci ascolta, l’Europa resta sorda. C’è come un maledetto muro».