"Guardatemi, sono io, l'artista!", Ligabue arriva a Palermo
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"Tormenti e incanti", la mostra di Antonio Ligabue, l'artista tormentato considerato uno dei massimi esponenti del naif italiano del Novecento, dal 31 marzo al 31 agosto nelle sale Duca di Montalto del Palazzo Reale di Palermo. L'abbiamo visitata per voi.
È una classica domenica di primavera siciliana, Palazzo dei Normanni si staglia, con la sua magnificenza, nel cielo azzuro inondato dalla luce del sole. Una fila di turisti accaldati testimonia che la stagione delle mostre a Palazzo Reale è, ancora una volta, un grande successo. Il 31 marzo infatti è stata inaugurata la mostra “Antonio Ligabue 1899 – 1965, tormenti e incanti”, promossa dalla Regione Sicilia e dalla Fondazione Federico II in collaborazione con la Fondazione Museo Ligabue di Gualtieri, nelle sale Duca di Montalto che resterà aperta fino al 31 agosto.
Oltre 80 opere tra dipinti e disegni e una installazione video per scrutare l'anima di un artista che molti hanno definito uno dei massimi esponenti della pittura naïf del Novecento italiano, ma che in questa definizione ci sta scomodo, perchè lui era un unicum, un caso a parte. La sua personalità tormentata e sofferente sfuggiva da ogni definizione. Antonio Ligabue sgusciava via dall'etichetta, dalle definizioni, dalla vita. "Per intenderci, Ligabue non è mai stato un pittore naïf, ingenuo o sprovveduto dal lato scientifico". Lo scrive Sergio Negri, uno dei curatori della mostra, profondo conoscitore del pittore. Insieme a lui, a curare ed allestire la mostra, anche Sandro Parmiggiani.
La storia personale di Antonio Ligabue è legata a doppio filo alle sue opere. Nato in Svizzera, dopo tante peregrinazioni in terra elvetica e dopo il primo ricovero in un ospedale psichiatrico, viene espluso in seguito a una denuncia della madre adottiva e portato a Gualtieri - paese d'origine del suo padre naturale - nel 1919, quando il pittore era appena ventenne. "Straniero in terra straniera", non parla la lingua, viene catapultato dalla Svizzera in un paesino della campagna reggiana, si arrangia a fare lo "scariolante", bracciante giornaliero, sulle rive del Po. Per un periodo vive come un selvaggio nelle campagne reggiane: lì lo trova per caso Marino Renato Mazzacurati, uno dei fondatori della Scuola Romana che lo ospita nella sua casa e gli insegna l'uso dei colori a olio. Da quel momento la sua vita cambia.
L'impossibilità di comunicare e lo sfogo pittorico di Ligabue
Diventa un artista che tra i ricoveri e la diffidenza generale arriva al successo, ma nonostante il cappotto, la macchina e l'autista, non cambia la sua indole. La solitudine e l'impossibilità di comunicare al di fuori ciò che alberga nel suo animo così tormentato, alla ricerca continua dell'amore che non ebbe mai, restano.
Le sue pitture rappresentano la natura e gli animali, con colori accesi dalla passione di uomo piccolo e infinitamente brutto che cerca solo di trovare equilibrio, tra interiorità ed esteriorità. In questa continua ricerca dipinge, scolpisce, disegna e vive quella che solo superficialmente può essere definita follia (altro grande luogo comune che accompagna la figura di Ligabue) e che forse è bisogno di attenzione, animo poetico e tormentato, dolore che accompagna il visitatore in tutto il percorso della mostra. Cercava, ad esempio, di comunicare con gli animali, perchè essi vedono le cose quali sono e per questo anelava a trasformarsi in uno di loro (una delle scene più forti del documentario che viene proiettato è proprio quella in cui Ligabue cerca di parlare con gli animali nel bosco).
"Esiste forse un legame tra Antonio Ligabue e la Sicilia? Una connessione intima e diretta tra un pittore che tolta la natia Svizzera vide sempre e solo il borgo di Gualtieri, nel cuore della Pianura Padana, e una Regione tanto distante da lui? Siamo convinti di sì. Ed è forti di questa convinzione che salutiamo con entusiasmo il ritorno della sue opere sull’isola, a distanza di oltre trent’anni dall’ultima volta, dalla retrospettiva allestita nel 1984 a Bagheria.", scrivono Livia Bianchi, presidente della fondazione Antonio Ligabue e Renzo Bergamini, sindaco di Gualtieri.
La mostra nelle sale Duca di Montalto è scandita in tre parti, come i tre periodi della produzione di Ligabue, sulla base dello schema interpretativo messo a punto da Sergio Negri. Il primo, 1928-1939, in cui la pittura è ancora incerta e acerba; il secondo 1939-1952, in cui le forme, le tecniche e i moduli espressivi diventano sempre più complessi e l'ultimo 1952-1962 in cui Ligabue, all'apice della sua fase creativa, visse un periodo di notevole discontinuità, in cui donò alcune tra le sue opere di più alto livello. Il pittore morirà tre anni dopo a causa di una lunga malattia che lo lascerà quasi del tutto paralizzato.
Una cosa mi ha colpito, tra tutte le opere, gli autoritratti disegnati o dipinti che raccontano la sua storia, il suo volto scavato, le rughe, le mosche che gli circondano il viso, i colpi autoinflittisi al naso aquilino. È il suo sguardo schivo. Non guarda lo spettatore, Ligabue. Lo sguardo c'è ed è vivo, ma è rivolto sempre alla sua interiorità, è il cancello di quel mondo incomunicabile che era il suo animo. Grazie al suo sguardo si torna alla vita di tutti i giorni con più voglia di capire le storie degli altri, con la consapevolezza che dietro ad ogni gesto, ad ogni frase, ci sta una storia umana.
Antonio Ligabue, come tutti i grandi artisti, svela un pezzo di se stesso. Soprattutto, ci invita a un viaggio pericoloso e bellissimo, che potrebbe rivelarsi anche inquietante nell'io di ciascuno di noi. Ci ispira nello scoprirci e nello scoprire gli altri, nel necessario imparare ad ascoltare davvero, dote che nell'era della facilità della comunicazione sta paradossalmente scomparendo. Non importa quanto possa essere triste e tormentata la nostra storia personale, non importa quanto male abbiamo visto: il risultato può essere sempre la bellezza e la magia di chi riesce, nonostante tutto, a vivere. Tormenti e incanti appunto.