Grecia: 3 settimane di resistenza con i migranti di Idomeni
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Idomeni è un villaggio greco al confine con la l'ex Repubblica jugoslava di Macedonia. È diventato improvvisamente "famoso", quando a novembre 2015 alcuni Stati europei decidono di chiudere le frontiere ai migranti economici, accettando solo profughi e rifugiati politici. I migranti restano bloccati, aiutati solo da un combattivo gruppo di volontari. Nasce il "ghetto" di Idomeni.
David è un attivista italiano di 28 anni. Ha condiviso 21 giorni infernali con i migranti dimenticati nella "terra di nessuno" di Idomeni, in Grecia, con quelli che almeno non sono annegati nell'Egeo. Assieme ad altri compagni, ha raccontato giorno per giorno cosa stava accadendo sulla pagina facebook Forgotten in Idomeni. Da Sarajevo, cafébabel ha contattato David e l'ha intervistato.
cafébabel: Quando inizia e quando finisce la storia del ghetto di Idomeni?
David: Inizia il 20 novembre 2015, quando la Slovenia decide di chiudere le frontiere ai "migranti economici" ed a catena tutti gli altri Stati sbarrano le porte, piazzando il filo spinato, e termina inesorabilmente il 9 dicembre con lo sgombero della polizia greca e la deportazione ad Atene di più di 2 mila persone. La Grecia, non potendo stendere il filo spinato in mare, in quei giorni era diventata una grande gabbia lungo il flusso migratorio. Un enorme, sterminato, hotspot.
cafébabel: Come si è creato il campo?
David: Dal 20 novembre Idomeni si è trasformata da un transit camp a un vero accampamento. Mentre da una parte la gente sbatteva contro la porta dell'Europa, dall'altra si preparava per restare e resistere. Da quel giorno tutte le grandi tende disponibili sono state occupate dai migranti che non potevano passare la frontiera. E si sono moltiplicate le tende da campeggio, portate per fortuna da alcuni volontari tedeschi qualche giorno prima.
cafébabel: Come era la vita nel campo?
David: Durante il giorno si susseguivano manifestazioni, proteste, scontri con la polizia, ma durante la notte, intorno al fuoco, si tornava a sorridere e scherzare. L'odore di quel fuoco si è legato inesorabilmente a me, così intriso di lingue straniere, di racconti di vite lontane. Dopo un paio di settimane insieme, ormai tutti ci conoscevamo, vivendo la quotidianità di un campo di rifugiati senza dimenticare di cercare il tempo per parlare, cantare e ballare. Tutto era mischiato e fuso insieme: non c'erano più migranti e volontari, ma persone che si scambiavano storie di vita e di viaggio.
cafébabel: Cosa facevate voi volontari?
David: Dopo una settimana in cui le condizioni del campo stavano decadendo inesorabilmente, grazie ad un gruppo venuto da Preševo (una cittadina albanese della Serbia, n.d.r.) e un altro gruppo di volontari tedeschi, siamo riusciti a montare ben due cucine per offrire pasti caldi e tè.
cafébabel: Com’era organizzato?
David: Il campo di Idomeni aveva assunto una sua propria struttura: c'era la parte più simile ad un "ghetto" vero e proprio, detta anche Camp B, principalmente abitata da iraniani e maghrebini, dove si trovavano le cucine. Le tende di africani lungo la linea del treno. Dal "boulevard" principale si poteva distinguere il quartiere nepalese, infine, le "centre ville", il centro, ossia il vecchio campo con le sue tende grandi e gli uffici della polizia e dell'UNHCR. Ogni spazio dell'accampamento era parte di una piccola esistenza a sé stante, un mondo, un piccolo villaggio dove si parlava ogni tipo di lingua.
cafébabel: Cosa rimane di questa esperienza?
David: Sono stati giorni intensi, giorni in cui provavi continuamente sentimenti contrastanti. Rabbia, sconforto, frustrazione, sorrisi, gioia: senza senso, uno sconvolgimento per l'anima. Ha rappresentato anche un periodo di vita collettiva autonoma, è stato un periodo di lotta sociale e politica, un periodo di sofferenza e morte, gioia e risate. Non c'erano più distanze, né scontri di culture, ma solo un forte sentimento di solidarietà. Un esempio diverso, smarcato per una volta da razzismo e retorica.
cafébabel: Che Europa esce da Idomeni, secondo te?
David: I migranti che hanno cercato di passare la frontiera hanno subito, vissuto e sbattuto la faccia contro la forma più feroce e pura di razzismo. Un razzismo made in Europe, dove il povero litiga con il più povero per contendersi le poche briciole che gli spettano. Gli hanno sbattuto in faccia ciò che è il marcio dell'Europa: inospitalità, razzismo, disinteresse.
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