Globish, un falso mito
Published on
Cari amici,
ultimamente si leggono diversi articoli sulla stampa italiana o straniera riguardo al cosiddetto Globish Secondo i sostenitori del Globish, l’inglese è ormai una lingua senza più padroni, una lingua quindi veramente mondiale. Si tratta invece di un falso mito che si fonda su una tesi del tutto screditata, teoricamente ed empiricamente.
Dal punto di vista empirico, diversi linguisti applicati hanno cercato per anni di analizzare empiricamente la forma dell’inglese parlato da locutori non nativi (nella letteratura accademica di chiama ELF – “English as a lingua franca”). I risultati sono stati del tutto deludenti. Si sono notate alcune sistematicità nell’uso (scorretto) della lingua, come la tendenza a non mettere la “s” alla terza persona singolare, la storpiatura del suono “th”, la tendenza all’utilizzo interscambiabile di “who” e “that”, e l’uso indiscriminato di “isn’t it?” come tag question. Tutto qui. Queste deviazioni non compromettono certo la comprensione fra persone, ma di qui a dire che siamo in presenza di una lingua “nuova”, cioè diversa dall’inglese, ce ne passa! Il Globish, quindi, empiricamente non esiste.
Dal punto di vista teorico, inoltre, il Globish è un’aberrazione. Le lingue, infatti, si sviluppano intorno ad istituzioni umane o centri di potere relativamente stabili. Il Globish invece è del tutto disarticolato. Non esiste un inglese propriamente “globale” con un lessico proprio e una sintassi relativamente omogenea, capace di configurarsi come uno standard nettamente distinto dall’inglese britannico o americano. Quello che accade in realtà è che esistono tante declinazioni dell’inglese quante sono i popoli che la imparano come lingua straniera, e queste declinazioni spesso sono talmente diverse da risultare del tutto incomprensibili. La conseguenza logica è che, per cercare di capirsi, tutti fanno lo sforzo di orientarsi verso gli stessi standard, ovvero quelli degli anglofoni madrelingua, cioè di quel segmento della popolazione mondiale composto da 400 milioni di persone che vivono in alcuni dei paesi più avanzati, ricchi e potenti del pianeta.
Infatti, sono ancora gli anglofoni madrelingua gli unici ad avere il diritto di stabilire ciò che è corretto o scorretto nella loro lingua, o, detto altrimenti, gli unici a detenere il monopolio della competenza legittima. Lo dimostra il fatto che nelle scuole, nelle università e nei centri linguistici di tutto il mondo si assumono insegnanti madrelingua inglese. Lo dimostrano i flussi continui di studenti vogliosi di imparare l’inglese verso le scuole e le università dei paesi anglofoni. Lo dimostra l’annuncio fatto nel 2008 dal governo britannico di un vastissimo piano per la promozione dell'inglese nel mondo intero. Lo dimostra ancora il fatto che in tutte le riviste scientifiche internazionali si richiede di scrivere in “English” e possibilmente di fare correggere le bozze a un madrelingua prima di sottoporre l’articolo. Nessuna rivista accetta articoli in Globish. Allo stesso tempo, è semplicemente insensato e desolante sostenere che è più difficile capire un inglese parlato da un madrelingua in modo scandito e senza espressioni idiomatiche che un “globish” parlato da un giapponese con alle spalle un semplice corso di 50 ore.
La tesi dell'esistenza del Globish si fonda prevalentemente su aneddoti e cifre fantasiose. Ad esempio, come si stimano i 4 miliardi di persone che parlano Globish? E ancora, cosa significa propriamente parlare Globish? Se basta sapere dire taxi, love, sex, phone, airplane, drink, one, thank you, please, good bye per parlare globish, allora metà del mondo sa parlare anche italiano, visto che pizza, mafia e espresso sono parole universali.
Il Globish quindi è un’idea cattiva che seduce per la sua semplicità, ma è un falso mito pericoloso. Il Globish agisce come cortina di fumo ideologica che impedisce di vedere l’asimmetria nella distribuzione dei costi e dei benefici dell’egemonia linguistica, che ovviamente va anzitutto a vantaggio dei paesi anglofoni. Si tratta di vantaggi di ordine economico, politico, culturale, e diplomatico (la relazione fra lingua e “soft power” è evidente). Da un lato abbiamo i madrelingua, i quali per farsi capire devono al massimo evitare espressioni idiomatiche e accenti regionali. Dall’altra parte, infatti, abbiamo tutti gli altri cittadini del mondo che investono miliardi di euro all’anno e anni della loro vita per tentare, spesso senza successo, di possedere la lingua egemone, restando sempre e in ogni caso un passo indietro rispetto ai madrelingua.