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Gli intellettuali turchi e l’Europa

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Ottavio Di Bella

L’Europa, oscuro oggetto del desiderio della Turchia: inafferrabile e sfuggente. Ma prima di desiderarla, non bisogna inventarsela questa Europa? Ecco ciò che si chiedono gli intellettuali turchi.

La modernizzazione della Turchia aveva la forma di un triangolo: esercito, amministrazione laica e intellettuali progressisti contribuirono in modo polivalente alla costruzione di un paese capace di affrontare le grandi sfide del ventesimo secolo.

La guida del paese era poi come una moneta. Sul lato testa: il simbolo del volontarismo di stato, motore e freccia di uno sviluppo il cui obiettivo è esplicitamente europeo, ovvero nazionale, laico e positivista. Sul lato croce: il progresso sociale concepito come garanzia dell’indipendenza nazionale contro gli sconfinamenti imperialistici occidentali.

La questione dello sviluppo in Turchia si è posta così, fin dagli anni 20, nei termini annunciati dai fautori della decolonizzazione e dei rapporti nord-sud.

Se nel susseguirsi dei colpi di stato, gli intellettuali sono stati espulsi dal triangolo motore, la problematica iniziale non è sparita: trasversale rispetto a tutta la società, questa non è mai stata tanto palese se non davanti alla questione dell’Europa, vera valvola di sfogo del dibattito politico ed intellettuale turco.

L’inizio dei negoziati di adesione all’Unione europea (UE) previsti forse per la primavera 2005 verrebbe a concludere la grande marcia inaugurata da Atatürk, il padre della Repubblica. Con esse potrebbe quindi concludersi anche la millenaria migrazione dei popoli turchi verso l’occidente. Si tratta quindi di un obiettivo carico di significati simbolici molto forti.

« La Turchia vive i 18 mesi più cruciali della sua storia. Non posso paragonarli che al periodo dei negoziati del Trattato di Losanna nel 1923 », scriveva il luglio scorso Ismet Berkan, direttore del quotidiano Radikal.

Colpo di stato silenzioso

Di fronte a questa occasione storica torna in auge la questione imperialistica. L’avvicinamento delle scadenze e l’accelerazione delle riforme imposte da Bruxelles rafforza i capisaldi di una scuola di pensiero secondo la quale la globalizzazione, di cui l’UE è solamente un braccio, mette in pericolo l’indipendenza nazionale.

Figura di prim’ordine di questa corrente di pensiero, Erol Manisali, professore di economia a Istanbul e cronista del quotidiano Cumhuriyet (“Repubblica”) illustra apologeticamente la sua teoria del « colpo di stato silenzioso », orchestrato dall’UE nel 1995 con la firma dell’Unione doganale con la Turchia.

« Entriamo o non entriamo [nell’UE]? Così vengono alimentati i dibattiti, cercando di farci contare i rinoceronti alla maniera di Ionesco. La firma dell’accordo di Unione doganale non è nient’altro che un atto di colonizzazione. La riconoscenza dello statuto di candidato alla Turchia nel 1999 è solamente un’illusione destinata ad incatenare meglio il nostro paese allo spazio europeo ».

Il tono di Mümtaz Soysal, consigliere del Presidente turco-cipriota, o di Attila Ilhan, scrittore e giornalista, è analogo: suona allo stesso modo a destra come a sinistra, svelando tutta una frangia nazionalista dell’opinione. La teoria del complotto non è mai passata di moda.

Amplificata naturalmente dagli atteggiamenti politici ambigui e dilatori di Bruxelles, rinforzata dalle mancanze strategiche di un’UE che considera il suo allargamento meno come un atto politico che come un processo naturale portato dagli spettri delle identità.

« Il giorno in cui la cricca di Bush deciderà di annientare il sistema di sicurezza mondiale, la Commissione di Bruxelles cercherà di consolare i paesi che la circondano con gli zuccherini della libera circolazione e della prosperità: un atteggiamento che la dice lunga sulla situazione delicata in cui versa al momento l’UE. Diagnosticarne la schizzofrenia non è molto lontano della realtà », scriveva Ahmet Insel, il 23 marzo scorso in reazione alla proposta Prodi-Patten riguardante la definizione di una cerchia di paesi amici dell’Unione. « Sognando una cerchia-tampone di paesi amici volti a preservarla dai barbari, forse l’UE si sveglierà un giorno accerchiata da questi altri barbari in apparenza civilizzati venuti dall’estremo Occidente ».

Professore alla Sorbona così come ad Istanbul e Galatasaray, Ahmet Insel partecipa alla rivista Birikim e dirige le edizioni Iletisim: critica dei dogmi dell’economia contemporanea (Mustafa Sönmez, Korkut Boratav), analisi delle nuove forme di dominazione, questo laboratorio di una nuova sinistra allergica ai riflessi ideologici costituisce un riferimento intellettuale in Turchia.

Considerata come la leva della democratizzazione turca, l’UE non sfugge alle loro riflessioni.

Amico intimo di Yachar Kemal, Orale Calislar, scrittore e cronista al giornale Cumhuriyet,

difende posizioni convergenti: « I dirigenti turchi non si sono mai serviti dello scarto tra l’UE e gli Stati Uniti se non nel quadro di stretti calcoli politici a breve termine. Non hanno mai pensato di diventare una differenza strategica. E questo perché il processo di adesione all’UE è sempre stato deformato in Turchia: la mentalità che presiede ai destini di questo paese non ha mai saputo assimilare i valori democratici nati in Europa », scriveva lo scorso marzo.

Un pensiero unico dell’Europa molle, senza frontiere definite, senza un’immagine precisa di ciò che implica un’adesione: una schizzofrenia subita secondo la quale « Bruxelles è la prosperità e Washington la sicurezza » (Ahmet Insel). Il consenso di un’opinione turca portata avanti da ambienti finanziari, da liberali raggiunti dagli islamici moderati il cui focolare politico, l’AKP (Partito dalla Giustizia e dello Sviluppo), è attualmente al potere.

Il torpore europeo descritto da Ahmet Insel e la nebbia del consenso turco sull’Europa rievocato da Orale Calislar non sono altro che due facce di una stessa constatazione. Questo pensiero comune è tanto europeo quanto turco.

E la sfida turca non si rivelerà che nel quadro di un’Europa da costruire: strategicamente, politicamente e socialmente.

L’Europa, una opportunità per la Turchia: il contrario non è meno vero. L’ingresso della Turchia nell’Europa deve prendere un’altra strada rispetto a quella dell’estensione del mercato comune. A costo di non esser una opportunità né per la Turchia, condannata al « colpo di stato silenzioso », né per l’Europa destinata alla diluizione della sua formula predettagli da Washington, primo sostenitore della candidatura turca all’UE.

La questione orientale

E questa sinistra intellettuale che milita per una forte integrazione dell’UE ritrova finalmente la questione imperialistica delle origini: ma piuttosto che considerarne le conseguenze in termini di lotta per l’indipendenza, ne spiega annessi – l’orientalismo secondo Edward Saïd – e connessi – un pensiero unico identitario e progressista – su scala europea.

« La presa di posizione di Giscard d’Estaing contro l’ingresso della Turchia per ragioni d’identità, ha costretto i sostenitori dell’Europa, le cui idee vanno contro questa posizione culturale, ad impegnarsi a favore della Turchia », dichiara Ahmet Insel.

« L’orientalismo è un sapere nato dalla forza », afferma Edward Saïd. Un sapere, gogna delle opinioni.

« Questo genere di discorsi – appartenete al Terzo Mondo così come all’Islam: il vostro sistema non è perfetto ma è ciò che potete sperare di migliorare – non è più quello di numerosi intellettuali ma costituisce pur sempre una visione del mondo dominante.

Ora, se qualcuno, (l’UE), ci chiede di ripensare la nostra democrazia, di conformarla a criteri generali, questo è il segno che ci si prende sul serio, è la fine del disprezzo verso l’oriente », scriveva Murat Belge, giornalista e saggista pubblicato da Iletisim il 4 luglio scorso.

Il progetto di questa sinistra turca: rompere la forza della concezione orientalista non attraverso una serie di lotte di retroguardia contro le forze imperialistiche, ma rompendo le molle interne. Abbattendo i miti a sinistra come a destra, ci si apre una terza via necessariamente europea tra identità nostalgiche e uniformazioni globali.

Come a suo tempo, Atatürk tra capitalismo e comunismo.

Translated from Les intellectuels turcs face à l’Europe