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Gli europei scommettono sul commercio equo e solidale

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Adriano Farano

Il commercio internazionale è malato. Ma la società civile lavora per il successo di catene di commercio basate su rapporti di scambio più equi. Analisi.

Ormai abbondano i consumatori in disaccordo col sistema economico in vigore. Anche per questo, sono sempre di più coloro che scelgono prodotti in grado di garantire un vantaggio sufficiente per chi li fabbrica. E’ il progredire di questa coscienza sociale che sta stimolando il successo del commercio equo e solidale: una dimostrazione del fatto che le alternative al sistema attuale ci sono eccome. E che il cambiamento è possibile se si scommette sulle associazioni di importatori e i canali di distribuzione che proliferano sempre di più grazie al ruolo assunto da una società civile sempre più organizzata nei paesi ricchi.

Una valida alternativa agli aiuti allo sviluppo

La verità è che il tempo ha svelato l’inefficienza degli aiuti allo sviluppo. Per questo diventano necessarie strategie innovative volte ad organizzare il commercio e le transazioni finanziarie internazionali con un obiettivo: generare più equità nella distribzione mondiale della ricchezza. Gli ultimi sviluppi dei negoziati in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio, fondata sulla liberazione totale dei mercati, parlano chiaro: se i paesi ricchi sono riluttanti all’apertura dei propri mercati, non esitano ad esigere quella dei paesi meno sviluppati. Ciò provoca delle battute di arresto nello sviluppo rurale e alimenta la malnutrizione in paesi già di per sé vittime di un’estrema povertà. Un esempio? La recente disputa sulle sovvenzioni alla produzione europea di zucchero, un mercato, questo, protetto da forti barriere all’importazione dai paesi in via di sviluppo. Secondo stime della ong Oxfam, una politica di commercio giusto che riduca barriere e sovvenzioni potrebbe generare all’incirca 30.000 posti di lavoro in paesi come Zambia e Mozambico.

Cooperative locali: una soluzione possibile

Nonostante l’instaurazione di una Giornata del commercio equo e solidale, l’Unione Europea offre la riduzione dei prezzi solo per determinati periodi e per una lista restrittiva di importazioni. Seppure è vero che una strategia di riforma resta complessa, non si può non lavorare per una serie di obiettivi concreti che possano palliare agli enormi squilibri che reggono il sistema internazionale degli scambi.

Attraverso la creazione della UNCTAD, la Conferenza Onu sul Commercio e lo Sviluppo, e a partire dalla stessa società civile emergono iniziative che difendono lo sviluppo dei paesi poveri attraverso il commercio. “Trade not aid”, commercio non aiuti, questo lo slogan di movimenti che, sulla base di principi quali la garanzia di un prezzo giusto e la percezione di una degna retribuzione, promuovevano un commercio giusto capace di appoggiarsi anche su un tessuto produttivo di cooperative nei paesi del sud del mondo. Una delle organizzazioni pioniere in Europa è la Fondazione olandese SOS Wereldhandel che, fin dal 1967, commercializza prodotti di paesi in via di sviluppo sulla base di rapporti equi con i produttori. E’ così che si assicura il pagamento di un prezzo che permetta l’accesso a fabbisogni basilari del produttore e quell’assistenza tecnica volta a creare iniziative sostenibili a lungo termine. Con una base produttiva propria si potranno canalizzare investimenti locali in infrastrutture volti a ridurre la dipendenza da organismi finanziari chiamati erroneamente “multilaterali”.

I risultati? Cominciano a vedersi

La catena commerciale equa e solidale si organizza in tre fasi: le cooperative del sud vendono a importatori che, a loro volta, effettuano la distribuzione della merce destinata alla vendita al dettaglio. I principi dei produttori si basano su una maggiore importanza data alle persone rispetto ai guadagni, alla volontà di creare accordi a lungo termine e all’assistenza tecnica. La controparte per le cooperative locali è chiara: esse devono impegnarsi a garantire una gestione trasparente delle imprese, stipendi e diritti equi, e pari opportunità per le donne. Un altro vantaggio di questo sistema consiste nel fatto che facilita i contatti diretti tra produttori locali e importatori europei. E’ possibile anche che i venditori al dettaglio importino direttamente senza passare per grossisti.

Non solo. Sono state anche creati organismi, come la Free Trade Label Organization, che conferiscono certificati a produttori e importatori il carattere equo nel commercio.

Grazie al successo di tali iniziative oggi esistono più di 70.000 punti vendita solidari che vendono prodotti agricoli o artigianali di paesi in via di sviluppo. E l’Europa, acquistandone l’80%, ne è la principale destinazione, con casi esemplari quali quello della Germania che assorbe l’80% mondiale del caffè equo e solidale. Secondo un rapporto della ong canadese Equiterre, nel sud ci sono circa 300 gruppi di produttori, vale a dire 800.000 famiglie, più di 5 milioni di persone in 45 paesi e un volume di 400 milioni di euro.

Non c’è dubbio: di fronte alle insufficienti iniziative dei governi, il commercio equo e solidale dimostra che la società civile è capace di organizzare alternative concrete. Ora è il momento che le autorità nazionali e europee considerino la volontà del popolo e partecipino anch’esse a una riorganizzazione dell’economia mondiale.

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Translated from Lo haremos nosotros: el Comercio Justo como vía para el desarrollo