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Gli eroi del Risorgimento al cinema: ci son voluti 150 anni!

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Cultura

Avete mai provato ad immaginare Garibaldi con le fattezze di John Wayne? Oppure Mazzini con il profilo atletico e longilineo di James Stewart? Poteva essere l’occasione di una vita per il cinema italiano: come ha fatto Hollywood con il western, e l’intero cinema americano con Nascita di una Nazione. Per quello italiano il Risorgimento rappresenta l’occasione mancata.

Imprevisti storici ed incomprensioni ideologiche hanno fatto sì che la fabbrica dell’immagine tricolore non abbia mai inquadrato in un preciso “genere” cinematografico un evento tanto epocale quanto la lotta per l’unità nazionale. Tutti i temi si prestavano a riguardo: la frontiera da scoprire, l’invasore da ricacciare, un ‘deserto’ da trasformare in ‘giardino’.

Ha riaperto il dibattito il regista napoletano Mario Martone con l’affresco corale e a tinte scure di Noi credevamo, scritto a quattro mani con Giancarlo De Cataldo, ex magistrato e autore di Romanzo criminale. Una raccolta di materiali che ha unito il romanzo “Noi credevamo” (1967) di Anna Banti a testimonianze di varia natura, da cui sono partite le storie dei tre ragazzi protagonisti di cui vengono seguiti i destini, e con essi quelli della lotta per l’unità.

De Cataldo ha individuato i colpevoli: «Il film non nasce per i festeggiare i 150 anni dell’Italia, ma da una riflessione che forse spettava alla politica, ma che la politica non ha fatto. Il nostro Risorgimento è stata una grande sfida e una grande avventura dato che viviamo in un Paese privo di memoria e dove, soprattutto, questo momento storico è raccontato solo in maniera edulcorata, da sussidiario».

Da Garibaldi agli altri giovani eroi: la memoria cerca giustizia

Nel film convivono le due retoriche che ancora oggi si scontrano, in una dialettica tra patrioti e anti-italiani: «La narrazione dell’esistenza di un gruppo di giovani pronti a dare il sangue per la loro causa; la visione dell’Unità come una truffa, una beffa, perpetrata alle spalle di quegli italiani che adoravano gli Austriaci, i Borboni, il Re e il Papa. Per quanto mi riguarda – continua De Cataldo - Noi credevamo è la nostra visione sulla speranza che può venire solo dai giovani». Martone ha descritto il suo film come «un viaggio dentro la storia italiana dell’Ottocento, alla ricerca di quelle tracce che una certa rappresentazione retorica del nostro Risorgimento ha finito per seppellire, privandoci di una prospettiva sul nostro passato evidentemente problematica, ma proprio per questo molto più viva e appassionante».

Recordman di vie, piazze e statue, non ebbe gloria nel cinemaUna tensione che si riapre: il regista torinese Davide Ferrario (tra gli autori più brillanti degli ultimi anni) ha terminato da poco le riprese di Piazza Garibaldi, documentario on the road che ripercorre l’itinerario della spedizione dei Mille a 150 anni di distanza, per verificare cosa è rimasto del senso dell’impresa per cui, a fine Ottocento, vennero intitolate a Garibaldi decine di migliaia di vie e piazze. Per spiegare questo progetto Ferrario ha citato il critico Alfonso Berardinelli: «Noi italiani “non siamo mai come dovremmo essere”. C’è come un tarlo, nella nostra identità, che ci fa sempre sentire fuori posto, inferiori, a disagio. Contemporaneamente, siamo intimamente convinti di stare nel paese dove si vive meglio al mondo. È proprio questa schizofrenia nazionale che vorrei mettere al centro del documentario: una nevrosi che non è cosa nuova, ma ha accompagnato tutta la storia dell’Italia unitaria, a cominciare dal modo in cui è nata».

Il nuovo Gattopardo?

Riuscirà il cinema italiano a rendere nuovamente il tema dell’Unità tra i suoi argomenti privilegiati? Paradossale pensarlo se si spulcia nelle filmografie di pionieri del cinematografo tricolore come Filoteo Alberini, Arrigo Frusta, Mario Caserini e Luigi Maggi, impegnati agli inizi del Novecento con temi quali la Presa di Roma, i Mille e i carbonari. Persino durante il Fascismo la fabbrica del consenso usò il Risorgimento come cemento per una pacificazione nazionale, in realtà lontana a venire. Il solo Alessandro Blasetti ne diede una rappresentazione popolare, antesignana del Neorealismo, con 1860. I Mille di Garibaldi. Piccolo mondo antico di Mario Soldati (1941) e Un garibaldino al convento di Vittorio De Sica (1942) combinavano invece eleganza formale e ironia beffarda.

Luchino Visconti con Senso (1954) e Il Gattopardo (1963) riuscì a ravvivare la fiamma, seppur filtrata attraverso il melodramma verdiano e il decadentismo aristocratico. Il centenario lo celebrò Roberto Rossellini con Viva l’Italia (1961); ai toni didattici faranno da contraltare il brigantaggio (su tutti Il brigante di Tacca del Lupo di Pietro Germi, 1952), la “controinformazione” storico-politica degli anni 70 (dai fratelli Taviani di San Michele aveva un gallo e Allonsanfàn a Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini) e le commedie di Luigi Magni ambientate nella Roma papalina. Poi il vuoto. Salvo qualche exploit (I viceré di Roberto Faenza, 2007, tratto dal romanzo di Federico De Roberto) e le sporadiche sortite di film europei come il francese L’ussaro sul tetto (1995) di Jean-Paul Rappeneau.

Passa per Noi credevamo la (re)visione dell’Unità nazionale? Il quotidiano francese Le Monde lo definisce già il nuovo Gattopardo. In attesa di distribuzione nelle sale europee, il film sarà trasmesso il 17 e il 18 marzo dal canale franco-tedesco Arte. La speranza è che le gesta degli eroi italiani vengano ricordate anche in Europa.