Fango rosso in Ungheria: ciò che resta del disastro ecologico
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Federico IarloriFarina, limone, succo, aceto, acqua minerale, detergente, carriola, guanti, maschere: non è una lista della spesa ma qualcuno dei doni raccolti d'urgenza per le vittime della catastrofe ecologica. Cafebabel.com ha visitato la zona toccata dalla colata di fango rosso per scoprire come gli Ungheresi sono venuti in aiuto dei loro compatrioti.
Kolontar, 4 ottobre 2010, un giorno come gli altri. In una casa, una coppia sta preparando un dolce. Alle 12 e 25, la diga che conteneva un enorme serbatoio pieno di rifiuti tossici proveniente da una fabbrica d'alluminio esplode. In qualche secondo, circa un milione di metri cubi di materiale tossico escono da un foro di una dozzina di metri situato nel corpo del serbatoio. Un'onda di fango rosso alta due metri si dirige verso Kolontar a meno di un chilometro da lì. Troppo tardi per fuggire o per salvare i mobili. Un padre si getta nella camera di suo figlio, lo solleva dal pavimento sul quale sta giocando e lo mette sull'armadio. Qualche istante più tardi, l'onda di fango invade la casa e sommerge il padre fino al collo. L'inondazione invade Kolontar e Devecser, il paese vicino. E il mondo intero assiste sconcertato alla più grossa catastrofe ecologica da Cernobyl, che ha fatto 150 feriti e distrutto 400 frazioni.
Ecosistema distrutto
Dopo molte settimane, il riflettore mediatico si è poco a poco allontanato dalla tragedia dedicandosi ad altre storie. È per questo che abbiamo deciso di visitare Kolontar e Devecser al fine di vedere se i loro abitanti possono riprendere una vita normale. Il buco del serbatoio è sempre là, noi siamo accanto. Degli operai lavorano giorno e notte per riparare i condotti e scavare un tunnel di sicurezza di un chilometro e mezzo. Il serbatoio contiene ancora 2,5 milioni di tonnelate di materiale tossico.
Questo fango rosso contiene tutti i rifiuti industriali derivanti dalla produzione dell'alluminio, un sedimento insolubile che contiene del titanio, del sodio e dell'ossido di silicone nonché dell'ossido di ferro che gli ha conferito il colore rosso. Un'analisi chimica condotta da Greenpeace ha anche rivelato che si sono liberati nell'ambiente 50 tonnellate di arsenico, 300 tonnellate di cromo e 500 chili di mercurio. Ma il pericolo più grande viene dall'alta concentrazione alcalina di questo melange, con un pH che raggiunge il 13 nel momento della fuga dal foro. Ogni contatto con la mistura può provocare delle serie ustioni alla pelle e la loro cura può durare molto a lungo. Tra i feriti, si contano gli abitanti ma anche certi membri della squadra di soccorso. Dall'inizio, si è cercato di bloccare la fuga con dell'acido acetico. Nell'attesa, impossibile far muovere qualcosa su questa superficie prima dell'estate prossima. La fuga ha d'altronde distrutto ogni forma di vita sulle due rive circostanti.
Aiuto alle vittime
Percorriamo una strada rossastra verso Kolontar, dove i segni del disastro sono stati cancellati. Ma il villaggio che accoglieva migliaia di anime sembra al momento deserto. Nel campo effimero della Croce Rossa, dei volontari distribuiscono generi di prima necessità alle famiglie. «Ci sono state molte iniziative cittadine», si rallegra Andrea Donner, militante di Kidma Ungheria, un'associazione ebrea creata per aiutare i giovani magiari. «Ho deciso di aiutare le vittime della catastrofe e, con i miei amici, di organizzare una raccolta fondi che abbiamo pubblicizzato e diffuso su facebook», spiega. «Ho parlato con le squadre di volontari sul terreno per saperne di più su ciò di cui le persone hanno davvero bisogno». Molte persone hanno aiutato le vittime attraverso delle iniziative su scala locale, per sapere dove andavano a finire i loro soldi. Non hanno sostenuto la Croce Rossa, né la raccolta del fondo nazionale. Si aspetta ancora di sapere ciò che i fondi rappresentano e a cosa essi siano effettivamente dedicati. La cifra si eleva per il momento a 4,3 milioni di euro.
Ma non tutte le iniziative cittadine sono state dei successi. Il pittore ungherese Gabor Suveg, ad esempio, ha deciso di riunire 300 opere d'arte realizzate da un centinaio di artisti e di riversare i proventi della loro vendita sulle aste on line alle vittime del fango rosso. La sua iniziativa però non ha ottenuto l'eco sperato e la somma raccolta non è stata un granché.
Nel frattempo, la giovane squadra attorno ad Andrea è giunta a raccogliere qualcosa come 200.000 fiorini e doni per un valore di altri 300.000 fiorini. L'intera somma è stata destinata all'acquisto di prodotti di base, il tutto caricato su un tir e trasportato nella città di Ajka per ordinarla. Andrea si compiace nel costatare che «una catastrofe di dimensioni ineguagliate abbatte le frontiere tra gli individui. Non ha importanza la nostra età, né il fatto di sapere se si è ebrei, cristiani o musulmani, di destra o di sinistra. Il paese intero è unito dal nostro desiderio di aiutare».
Ritorno alla normalità
A Kolontar, si scopre presto che molte famiglie hanno ignorato i consigli e sono presto tornate nelle loro case, con la ferma intenzione di restarci, costi quel che costi. La maggior parte di loro fa finta di non guardare alla minaccia delle pozze di fanghiglia, che, una volta trasformatesi in polvere, rischiano di infettargli i polmoni. Ma non sono tornati tutti; alcuni non avevano più un posto dove andare.«Il fango tossico divora i muri, il suolo, il mobilio, rendendo le case inabitabili. Quelle che sono state prese dall'onda sono state addirittura rase al suolo», precisa l'ufficiale Attila Vezendi. Puntano il dito su una casa solitaria ancora in piedi: «Lo conserviamo in quello stato in ricordo della catastrofe», ci dice. All'interno, si ha l'impressione che solo qualche giorno ci separi dal momento in cui fu sommersa dal fango. Da un muro, miracolosamente ancora in piedi, pende l'effige di Cristo. L'ufficiale ci dice che prima in questo luogo ci viveva una coppia di pensionati. Il marito è morto all'ospedale in seguito a delle ustioni. «La sua donna è stata ritrovata in mezzo ai campi. È annegata», dice sconfortato.
Torniamo verso Budapest con le nostre scarpe militari. I custodi ci hanno detto partendo che le nostre scarpe erano ora da catalogare come prodotti tossici. In qualche modo restano a Kolontar, con i suoi abitanti la cui vita è caduta in rovina il 4 ottobre alle 12 e 25, portata via da una colata di rouge.
Un mega ringraziamento a Veroniki Kovacs e a Lili Szilágyi per il loro aiuto nella realizzazione del reportage e ad Aleksandra Sygiel per averlo atteso con così tanta pazienza ;)
Foto: ©Filip Jurzyk
Translated from Toksyczny związek Węgier z ekologią