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Europei a metà: la vita grama delle coppie “miste”

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Viola Fiore

società

San Valentino celebra l’amore. E l’amore, si sa, non ha colore, non lingua, non ha razza e bla, bla, bla… Ma cosa succede se invece di sposare qualcuno con il passaporto europeo ci innamoriamo di chi arriva dall’Africa? Se l’amore è cieco, la burocrazia è ottusa? La testimonianza di una coppia mista.

Non mi piace scrivere in prima persona: in questi casi l'essere soggettivi è inevitabile. Vorrei farlo ugualmente, per una volta, perché credo sia importante testimoniare di una realtà comune a molte persone che si trovano nella mia situazione. Vorrei parlare della difficile vita delle persone europee che convivono, o più spesso sposano (precisiamo subito: ci si sposa per amore, ma in certe situazioni sposarsi diventa più urgente) persone che europee non sono. Anzi, diciamo che non appartengono al Nord del mondo.

La lotta ai falsi matrimoni

Probabilmente molti sono al corrente del fatto che, irrigidendosi le leggi sull'immigrazione in molti Paesi europei, si moltiplicano anche gli ostacoli al riconoscimento delle unioni di coppie cosiddette “miste”. E spesso si allungano i tempi, il tutto in nome della lotta ai matrimoni falsi. Con il mio compagno, decidiamo di sposarci un anno fa, in Italia, dove sono nata. Pensiamo che sposandoci lui acquisirà maggiori diritti e, di conseguenza, la nostra vita quotidiana diventerà più semplice. Lui è africano: partono le verifiche sul suo status, le burocrazie dei nostri rispettivi Paesi si mettono al lavoro e ci domandano di produrre i documenti necessari (il suo certificato di nascita, casellario giudiziario, etc), tradurli e autenticarli attraverso passaggi e pedaggi in varie Istituzioni a tutela dei cittadini. Il matrimonio viene celebrato, arriva il momento della consegna a mio marito di un permesso di soggiorno per motivi familiari: scattano a questo scopo altri controlli, ci vengono a trovare a casa due vigili urbani e poi due poliziotti in borghese: devono verificare che viviamo davvero sotto lo stesso tetto. Con il nuovo permesso in mano, arrivato alcuni mesi dopo il matrimonio, partiamo per la Francia, dove ho avuto l'opportunità di svolgere uno stage nel settore in cui vorrei lavorare. I tempi, per i giovani laureati, sono duri e nelle città di provincia italiana non è facile trovare lavoro. Ecco che partire sembra una buona idea.

Purtroppo non abbiamo fatto i conti con la realtà: la libera circolazione in Europa vale solo per gli europei di lunga data, non per chi con un europeo è solo sposato solo da un anno. Niente visto d'entrata per mio marito, quindi. Potremmo richiederlo solo a patto di dimostrare di avere risorse economiche sufficienti: ma io sono venuta in Francia proprio perché precaria, sono una stagista. Ultimo tentativo: mio marito prova a farsi ricevere al Consolato di Francia a Roma, per chiedere un visto dall'Italia e poi rientrare in Francia: gli accordano la richiesta, deve solo produrre alcune decine di documenti, farsi rimandare dall'Africa alcuni certificati che scadono dopo tre mesi (anche quello di nascita, nonostante si possa nascere una volta sola). Il tutto il più rapidamente possibile, cosa non facile come può immaginarsi chiunque conosca un po' la realtà africana. La sorpresa più amara arriva durante il colloquio con i funzionari del Consolato: dobbiamo ancora una volta dimostrare prima di tutto che il nostro matrimonio non è una messa in scena. A lui vengono poste domande sulla nostra vita privata (dove e come ci siamo conosciuti, chi ha deciso di sposarsi ecc…) che evidentemente, secondo le autorità d'Oltralpe, dovrebbero servire a fiutare gli impostori. La risposta? Le faremo sapere. Quando?

Quante speranze abbiamo che mio marito ottenga un visto e con esso la possibilità di lavorare nella nostra bella Europa senza frontiere, in cui due Stati, vicini in molti sensi, non si fidano neanche della validazione di un matrimonio fatto da uno di loro? Non abbiamo diritto a risposte, per il momento. In fondo, siamo europei solo a metà.

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