Est: la fine di un sogno?
Published on
Translation by:
davide rizzoDopo l'adesione nel maggio 2004, nella nuova Europa è l'ora del disincanto. Tra successo dei partiti populisti e nostalgia del comunismo, che fine ha fatto il sogno europeo?
«Il giorno dopo la festa». È così che Jacques Rupnik – Professore del Centro Studi sulle Relazioni Internazionali di Parigi e specialista dell'Europa centrale – definisce il periodo seguito all'allargamento del maggio 2004. Già, perché dopo due anni il costo sociale del boom economico dell'Est si rivela alto. Tra aumento degli affitti e delle tariffe nei trasporti, smantellamento del sistema sanitario, aumento della disoccupazione (al 20% in Polonia), precarietà, disuguaglianze e lavoro nero il passaggio al liberalismo non è stato indolore. Ecco spiegato il ritornello del "si stava meglio prima" spesso ripetuto da chi è stato danneggiato dal sistema. «Perché rimpiango l'epoca comunista? L'educazione era gratuita, l'accesso al lavoro garantito, i datori di lavoro non ci trattavano come schiavi» dice Urzula, cittadina polacca di cinquant'anni. «Il fenomeno della nostalgia del regime precedente al 1989 esiste ed è ben visibile. Quasi il 20% dei cechi affermano di voler votare per il Partito Comunista» sottolinea Rupnik. «Ma è limitato alle persone anziane con pensioni modeste ed ai settori in ristrutturazione come l'industria mineraria, i più duramente colpiti dallo choc della transizione». Lo storico polacco Marcin Kula ha una visione più pessimista: «La gente è delusa dall'Europa e vede il proprio passato sotto una luce più positiva rispetto al 1989».
L'eterno capro espiatorio
Il problema della disillusione merita di essere affrontato anche riguardo alla classe dirigente. «L'euroscetticismo ha guadagnato terreno nelle classi politiche» osserva Georges Mink, Professore al Cnrs, profondo conoscitore dei Paesi dell'Europa Centrale ed Orientale. «Non c'è dubbio che oggi la posta in gioco con l'Europa sia più sentita. La gente ha percepito l’importanza degli aiuti di Bruxelles sulle infrastrutture, le reti stradali o le sovvenzioni agricole. Ma l'Europa continua ad essere strumentalizzata dai politici». Una tesi confermata da Rupnik che la definisce come una fase di «decompressione; dopo dieci anni di sforzi per integrare l'Ue, l'obiettivo è ormai raggiunto. Il che spiega il rallentamento attuale, che talvolta sfocia nel rifiuto».
Jean-Denis Mouton, direttore del Centro Universitario Europeo (Centre Européen Universitaire, Ceu) di Nancy, interpreta questa diffidenza come un «periodo di realismo nei confronti dell'Ue, che ha preso il posto del mito dell’adesione». E preferisce relativizzare questa tendenza negativa: «Una volta al potere, i governanti considerati euroscettici moderano notevolmente il loro linguaggio a causa dell'interdipendenza socioeconomica con Bruxelles». L'arrivo dell'ultraconservatore Lech Kaczinski in Polonia, così come i buoni risultati ottenuti dalla destra radicale dell'Ods nella Repubblica Ceca, sono d'altra parte attribuibili a fattori interni come la credibilità dei partiti tradizionali.
Pochi soldi e tanti idraulici
Al di là di una certa insoddisfazione politica, l'ingresso dei Paesi dell'Est nell'Ue è avvenuto in un contesto sfavorevole. Considerando l'ampiezza del progetto il processo di allargamento si è «svolto estremamente bene». Ma stando alle parole di Olli Rehn – Commissario europeo per l'allargamento – dubbi e incertezze continuano ad aleggiare sulla costruzione europea. Lo sforzo finanziario deciso dopo l'adesione non è stato all'altezza delle aspettative, restando inferiore agli aiuti concessi dopo l'ingresso di Spagna e Portogallo nel 1986. Un agricoltore polacco percepisce così il 25% dei fondi destinati ad un suo omologo francese. Ma Rupnik afferma che «l'apporto finanziario resta non trascurabile date le risorse di questi dieci nuovi Paesi, che rappresentano soltanto il 5% del Pil dell'Ue».
D'altro canto le recenti incertezze sul bilancio 2007-2013 danno credito all'idea «che il grande slancio di generosità degli Stati membri non ci sia stato, e che i cittadini dell'Est siano ancora considerati come cittadini "di serie B"». Secondo un recente sondaggio, un terzo dei cittadini lettoni ha tuttora un'opinione negativa dell'Unione Europea. La polemica francese sull'invasione degli "idraulici polacchi" ha gravemente accentuato questa sensazione di rifiuto. Oggi è il tema delle restrizioni alla libertà di circolazione della manodopera a ridare impulso alle inquietudini. «La libertà di movimento è il primo simbolo del post-comunismo. Perché tutto questo ostracismo?» si chiede Rupnik. «I capitali circolano, i supermercati occidentali deturpano il paesaggio nelle città e nelle periferie dell'Est. Ma gli abitanti sono invece vittime di misure discriminatorie». Una sola cosa è certa. A sette mesi dall'entrata prevista di Bulgaria e Romania nell'Ue, questo clima di disincanto non favorisce lo slancio europeo.
Translated from A l’Est, la fin du mirage