Economia italiana, «cala la competitività»
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Intervista con il Dott. Marco Incerti, ricercatore e responsabile della comunicazione del (Ceps) di Bruxelles.
Italiano, ricercatore e responsabile della comunicazione del Centre for European Policy Study (Ceps), il Dott. Marco Incerti è un esperto di riforme istituzionali e delle questioni che riguardano l’Italia da vicino. Il Ceps dal 1983 rappresenta una fonte indipendente di soluzioni per le questioni europee in tutti i settori della politica e dell’economia.
Dott. Incerti, quali sono i problemi dell’economia italiana in una prospettiva europea?
I problemi sono di diversa natura e riguardano specialmente la struttura industriale, l’andamento demografico, la rigidità del mercato del lavoro, la mancanza o le eccessive distorsioni della concorrenza in molti settori chiave – si pensi all’ultimo scandalo nel settore bancario – e l’attitudine antagonista di sindacati e rappresentanti del governo.
In particolare l’Italia soffre di un indebolimento della competitività della sua industria dovuto soprattutto alla sua composizione, prevalentemente caratterizzata da piccole e medie imprese (rispetto ad altri paesi europei) attive in settori soggetti ad una spietata concorrenza globale. Penso, per esempio, all’importanza del settore tessile italiano ed alla diretta concorrenza del mercato cinese. Quello di cui l’Italia, come tutta l’economia europea, ha veramente bisogno è d’ingenti investimenti in ricerca e sviluppo come unico mezzo per rilanciare la competitività del Paese. Purtroppo, però, la destinazione di più risorse all’innovazione produrrebbe risultati solo a lungo termine, e anche qualora si iniziasse al più presto, i prossimi anni non saranno certo facili per l’Italia. Dal punto di vista della crescita demografica, poi, il problema è altrettanto grave, soprattutto per la sua incidenza sul Pil: con la popolazione che invecchia sempre di più (la percentuale di popolazione over 60 è del 24,5% – n.d.A) e un tasso di natalità medio in continua diminuzione (sia attesta intorno alle 9,6 unità per migliaio di abitanti – n.d.A). il sistema pensionistico attuale risulta insostenibile in assenza di riforme.
Qual è stato l’impatto del governo Berlusconi?
Non ha risolto i problemi. Il suo governo non ha rispettato molti impegni elettorali e, in particolare, non ha portato avanti quelle riforme strutturali che sarebbero state necessarie per far ripartire l’economia italiana. Solo per fare un esempio, ricollegandomi al problema demografico, il governo Berlusconi ha rimandato l’entrata a pieno regime della riforma del sistema pensionistico al 2008 principalmente per evitare di subire le conseguenze politiche causate dall’inasprimento del sistema, indebolendo in tal modo la stessa riforma.
Da una prospettiva europea, poi, il governo di centro-destra ha continuamente screditato pubblicamente le riforme provenienti dall’Unione Europea dando, peraltro, all’euro la colpa del malessere economico del Paese. L’effetto di questo atteggiamento può essere rappresentato dalle proteste contro la linea ad alta velocità (Tav) Lione-Torino, che hanno visto l’estremizzazione e la chiusura al dialogo di ampie frange della popolazione rispetto ad un grande progetto strutturale ideato nel quadro europeo.
Prodi potrebbe fare meglio?
Sempre dal punto di vista economico, sì, ma solo in parte. Prodi potrebbe portare con sé una diversa cultura di governo ed alcuni dei suoi collaboratori hanno un’idea migliore sulle ricette utili per l’Italia. Resterebbe tuttavia da vedere se il centro-sinistra abbia la capacità di spingere oltre l’opposizione interna alla stessa coalizione delle riforme necessarie, percepite come eccessivamente dure anche dai partiti che lo sostengono. Uno dei vantaggi maggiori sarebbe probabilmente l’abbandono delle posizioni eccessivamente antagonistiche fra sindacati e rappresentanti del governo, che, se provenienti da un mondo di sinistra, potrebbero meglio raggiungere insieme un’intesa costruttiva. Insomma Prodi sulla carta ha le carte per far digerire meglio alle parti sociali le “lacrime ed il sangue” che dovranno essere versati in contropartita del rilancio dell’economia.
È stato giusto permettere l’entrata dell’Italia nella zona euro?
Certo, assolutamente! È certo che l’Italia non è mai stata vista come la prima della classe dagli ideatori della moneta unica. In molti pensavano addirittura che i criteri del Patto di stabilità fossero stati fissati in modo tale da escludere economie con le caratteristiche tipiche dell’economia italiana, e mi riferisco principalmente all’enorme debito pubblico (che a novembre ammontava a 1.537,219 miliardi di euro – n.d.A). Tuttavia, l’Italia ha portato nell’euro una grande fetta di mercato ed ha contribuito a stabilirne il valore e la credibilità. D’altra parte l’euro ha giovato moltissimo all’Italia che si è vista costretta a passare attraverso una serie di riforme drammatiche, negli anni Novanta ed oltre, che hanno portato a rendere un po’ più sostenibile il debito pubblico.
L’Italia ha sbagliato – e questo è uno dei veri problemi dell’euro – nell’assumere, nel novembre 2003, un atteggiamento troppo morbido rispetto allo “sforamento” dai criteri di Maastricht da parte di Francia e Germania per ottenere in cambio la stessa indulgenza di cui ora ha bisogno.