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Economia: a quando le nozze con l’Ue?

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L’integrazione economica tra Ankara e Bruxelles è difficile ma non impossibile. A condizione che...

Come va l’economia turca? Negli ultimi tempi i commenti positivi abbondano. Dopo la terribile crisi finanziaria del 2001, il gigante anatolico ha sperimentato due anni successivi di forte crescita (il 7,8% nel 2002 e il 5% l’anno scorso) che hanno fatto portato il PIL per capita a 7000 dollari.

Dopo il 2001, in effetti, l’FMI aveva concesso grandi quantità di prestiti da spalmare su un programma d’interventi triennale all’insegna dei dogmi delle privatizzazioni: controllo della spesa pubblica e lotta all’inflazione.

Se la PAC sbarca in Anatolia

Molti problemi, però, restano. Innanzitutto, nonostante una crescita sostenuta, ben il 28% dei turchi è povero. In secondo luogo, il settore agricolo resta centrale. Certo, negli ultimi anni il suo peso sull’economia turca è sceso al 20% del PIL, ma vi sono ancora impiegati il 25% degli uomini e addirittura il 60% delle donne. Di questo si dovrebbe tenere conto, ad esempio, nell’ipotesi in cui, un domani, la Turchia divenisse beneficiaria dei fondi PAC. Soprattutto se si considera che il 36% dei lavoratori agricoli è povero.

Un altro problema attiene poi strettamente alla stessa crescita che, secondo previsioni dell’Economist, nel 2004-2005 dovrebbe indebolirsi a causa di una diminuzione della formazione di capitale fisso (stock) e della debolezza del settore estero.

La debolezza delle esportazioni turche obbliga infatti la banca centrale a intraprendere ingenti svalutazioni della lira per aumentarne la competitività rispetto all’UE (a cui va il 53% delle esportazioni turche). Certo, queste svalutazioni hanno portato il deficit corrente dal 5% del PIL nel 2000 all’1% circa nel 2003, ma si tratta comunque di misure poco sostenibili nella lotta all’inflazione, pilastro della politica economica dell’FMI e della Commissione. Basti pensare che la Turchia ha faticato non poco a portarsi dal 65% del 1999 al 20% del 2003: un risultato importante, ma solo il primo passo se ci si vuole adeguare al 2%, obiettivo della BCE.

E nei bazar di Istanbul...

Fomentare la crescita, quindi, senza produrre ulteriore inflazione è un problema che deve essere affrontato per consolidare ed evitare ulteriori crisi come quelle del 1999 o del 2001. I settori in crescita sono quelli dei beni di consumo e, soprattutto, i servizi, nei quali il turismo rappresenta addirittura un quinto del PIL totale. Recuperare la fiducia dei turisti occidentali dopo gli attentati di Istambul del 2003 è quindi fondamentale, ma strategicamente è forse più importante promuovere all’estero l’immagine dell’imprenditore e del prodotto turco.

Secondo il Centro Studi Turchi di Essen, in Germania, gli immigrati turchi in Europa contribuiscono al PIL europeo proporzionalmente quanto la media degli stessi europei, dato fortemente indicativo delle capacità di un popolo intelligente, inventivo e scaltro, con una forte propensione al servizio al cliente, come qualsiasi buon turista che sia passato per i bazar di Istanbul o delle altre grandi e piccola città turche può testimoniare.

Scommettere sull’educazione. E convincere l’FMI

Le potenzialità dei lavoratori e imprenditori turchi può emergere attraverso ingenti investimenti nel settore educativo e una politica di incentivi allo sviluppo che coinvolga anche la donna che, almeno nelle campagne, resta emarginata. Ciò può aiutare a portare l’inflazione a livelli a una cifra, rilanciando le esportazioni e consolidando le finanze pubbliche.

Il margine d’azione per il governo turco è, però, strettissimo. L’FMI controlla i programmi di governo e dalle sue valutazioni dipende l’afflusso o meno dei suoi fondi.

Con un deficit finanziario annuale di circa il 10% del PIL, il debito turco sta costantemente cambiando proprietario, passando, attraverso l’FMI, da investitori interni a quelli esterni. Con un bilancio in cui le spese per il servizio del debito, nel 2002, sono pari al 45% delle spese totali. Il debito pubblico turco è ora intorno al 90% del PIL, ma le spese per gli interessi incidono in profondità sui conti pubblici.

La situazione complessa in cui si trova la Turchia offre possibilità di sviluppo e di riavvicinamento ai livelli UE, ma probabilmente non a breve termine. Solo quando i prodotti “made in Turkey” appoggeranno stabilmente un consumo privato già solido si potrà portare a termine il risanamento finanziario delle casse pubbliche, necessario per il miglioramento delle condizioni di vita di un paese ancora sostanzialmente povero.