"È solo la fine del mondo" dice troppo o non abbastanza?
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Sicilia Queer Filmfest e Lucky Red hanno portato al cinema Arlecchino di Palermo l'anteprima nazionale di È solo la fine del mondo, ultimo film del regista canadese Xavier Dolan. Pubblico visibilmente emozionato a fine proiezione, stregato dalla particolare alchimia di una pellicola intensa, che proviamo a raccontarvi senza svelare troppo.
In una sequenza di È solo la fine del mondo organizzata intorno a una tavolata il protagonista, un figliol prodigo scrittore di teatro che torna dalla sua famiglia dopo dodici anni di assenza, viene deriso dalla madre e i fratelli per avere espresso il desiderio di rivedere l'indimenticata casa natia, descritta come un vecchio e cadente rudere di campagna sommerso dalle foglie e le ragnatele: visualizzo mentalmente la casa abbandonata presente nel videoclip Hello che Dolan ha girato per Adele raggiungendo quasi due miliardi di visualizzazioni su You Tube e il successo commerciale, di massa.
Se ora si tratta di gestire quest'immensa popolarità senza rimanerne tramortiti, Dolan con la sequenza sopra descritta sembra quasi farsi beffa di tutte le aspettative che gravitano intorno al suo status di ex enfant prodige della settima arte che deve stupire a ogni nuovo film, atteso per forza di cose come più ambizio, grandioso e spettacolare del precedente. Con È solo la fine del mondo, settima opera di una carriera giovane e già pluripremiata (Premio FIPRESCI a Venezia per Tom à la Ferme, Grand Prix a Cannes per Mommy), Xavier Dolan si concede invece il suo film più assorto, compatto e minimalista.
Sono lontani i tempi di Les Amours imaginaires e Laurence Anyways con cui il Sicilia Queer Filmfest aprì le sue prime edizioni, stupendo il pubblico palermitano e provocando reazioni di ogni tipo. Di quelle esperienze Dolan conserva l'indagine sui rapporti familiari, ricorrente in ogni titolo della sua filmografia, mentre i virtuosismi stavolta sono tenuti a freno e ogni idea è posta al servizio della storia. Storia che parte dalla decisione del protagonista di tornare a casa dopo dodici anni di assenza. Il perché viene svelato al pubblico ma non ai personaggi del film, scatenando un'asimmetria emotiva tra ciò che si sa e ciò che si vede, che rende la vicenda densa di pathos.
Dolan è abile a caricare gli avvenimenti di tensione grazie anche a precise scelte stilistiche. Intanto è un film di interni: nella narrazione di fatti accaduti "da qualche parte, in qualche tempo" (in realtà la dedica finale svela che ci si è ispirati alle vicende dello scrittore francese Jean-Luc Lagarde) non c'è spazio per esterne e panoramiche, il mondo al limite lo si vede da una finestra o dal finestrino di un'automobile. Quasi non c'è spazio neanche per gli 'interstizi-videoclip' con cui Dolan delizia abitualmente il suo pubblico: ne abbiamo contati appena tre, mentre solo nel precedente Mommy se non si viaggia verso la decina (con un ecclettismo che chiama in causa Oasis, Counting Crows, Bocelli e Einaudi) poco ci manca.
E anche se non c'è il formato quadrato inaugurato con Mommy a rendere più claustrofobica l'inquadratura, ci pensa l'ossessione del regista per i volti dei suoi attori, ripresi a tutto schermo per svelarne i dettagli, da più angolazioni per coglierne singole increspature, tanto che per lunghe sequenze non si vede mai neanche un piano americano. Se il successo ha dato a Dolan un vantaggio, è quello di poter scegliere attori che veramente desidera, così il regista canadese costruisce un cast perfetto, ripescando Nathalie Baye e arruolando Marion Cotillard (Inception) come dolce cognata del protagonista, Léa Seydoux (La Vita di Adele) come irrequieta sorella e Vincent Cassel (Il Cigno Nero) come tempestoso fratello maggiore.
C'è naturalmente anche il protagonista, Gaspard Ulliel, a misurarsi con le interpetazioni intense e riuscite degli altri. Spazio così al melodramma, con personaggi che eiettano improvvisi geyser di parole facendo sussultare la platea (pubblico davvero numeroso "è solo la fila più lunga del mondo" si scherza su Facebook), ognuno con la propria personalità e un passato più o meno tormentato. La strana alchimia di È solo la fine del mondo si regge tuttavia sul non detto, perché sono i silenzi a parlare di più, sono gli sguardi dei personaggi a raccontarsi e tentare di comunicare mentre il tempo scorre inesorabilmente. E alla fine del film, tra i conciliaboli di un pubblico un po' stordito creatisi fuori dal cinema, c'è chi accusa il film di aver voluto dire troppo, ma anche chi fa notare la totale latitanza di una figura paterna, un spiegazione circa l'antefatto e l'assenza di un epilogo vero e proprio.
È solo la fine del mondo rappresenterà il Canada alla corsa all'Oscar come miglior film straniero. Con buona pace dei campanilisti, il nostro Fuocoammare di Gianfranco Rosi, pur rappresntando una scelta di qualità e con tutti i distinguo del caso, ha poché chance di battere il film di Dolan, che è già al lavoro su una pellicola in lingua inglese con Jessica Chastain e Susan Sarandon. Solo per diventare il regista migliore del mondo.