«È l'Est che ha fatto l'Europa, lì si respira futuro»
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Un giovane giornalista italiano fa un viaggio lungo il vecchio crinale delle due Europe: Germania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia. Si è infilato tra le pieghe dell'est, di quell'Europa ex-comunista, per dare un senso a questa in cui vive.
Matteo Tacconi, 31 anni, è un giornalista umbro appassionato di Est, collabora con Europa e, quasi ovvio, con East. Un po’ stanco dei giornali italiani («Troppa politica, troppo schiacciati sul palazzo», dice) e convinto che ci si debba interessare di più a ciò che accade oltre frontiera, le sue analisi sulla politica estera coprono i Balcani, l'Europa centro orientale e quello che c'è “ad est di Varsavia”: il vecchio mondo rosso. E proprio dell'Europa post-comunista parla nel suo libro “C'era una volta il muro”, un reportage dall’ex cortina di ferro uscito a fine ottobre 2009 per Castelvecchi.
Pare che il muro non sia caduto a Berlino...
«Ci sono state altre scosse, prima. La Polonia, con Solidarnosc, o gli ungheresi, decisivi per la caduta del muro. Nazioni all'avanguardia nella liberalizzazione e attrici nel crollo dei regimi, l'Ungheria ha fatto la Tavola rotonda subito dopo la Polonia, l'Ungheria ha tranciato il reticolato alle frontiere nell'agosto '89. Andando più indietro: nel 1956 ritroviamo protagoniste ancora Ungheria e Polonia, nel '70 è ancora la Polonia a dettare il passo. Le radici di quel 9 novembre 1989 vanno cercate indietro nel tempo».
Sei convinto che l'est abbia fatto l'Europa, in che senso?
«Quando si parla dell'Europa unita, della “riunificazione”, e tutto si concentra nel 2004 sottolineando che l'ovest si è allargato verso est, dimentichiamo che senza gli eventi del 1989 oggi non si parlerebbe né di Europa allargata né di Europa unificata. Non è l'ovest che ha fatto crollare il comunismo, eppure ancora oggi non riconosciamo i meriti dell'est. A tutti, ad ovest, stava bene lo status quo: era l'età dell'oro e non dovevamo “occuparci” dell'est se non sostenendolo un po' emotivamente. Pochi mesi prima che il muro cadesse Andreotti disse che gli piaceva talmente la Germania che era contento ce ne fossero due. Mitterand e la Thatcher temevano che la loro egemonia sul continente sarebbe stata limitata. L'est si è liberato da solo senza aiuto esterno. E credo anche che l'est stia facendo l'Europa. L'ovest ha governato l'allargamento in maniera molto burocratica: il procedimento di integrazione è durato tantissimo, tanto da dissipare il valore dell'89, arrivati al 2004 chi se lo ricordava?».
Che aria tira, da quelle parti?
«Si respira futuro. Camminando a Varsavia, a Budapest, ma anche in città più piccole, vedi dinamismo e voglia di fare in ogni angolo: loro partono, emigrano e poi ritornano, aprono la propria azienda. Sono proiettati al futuro. Noi italiani, francesi, inglese, spagnoli, invece, siamo tutti pigri ormai. Un altro dei falsi miti che ho cercato di sfatare è l'infelicità. Si pensa a quei posti come a degli anfratti grigi e cupi, i resti di un'età del comunismo che ancora non passa, come se ancora facessero le code ai negozi alimentari, invece sono luoghi pieni di colore che vanno scoperti e riscoperti».
Pare che di pregiudizi da sfatare ce ne siano ancora altri..
«Li chiamavamo il blocco dell'est e continuiamo a pensarlo, mentre invece sono paesi dalle differenze molto marcate. I polacchi sono irruenti, sanguigni, avventurieri; ci sono gli ungheresi, più mitteleuropei ma dal temperamento sempre molto caldo; i cechi con loro disciplina quasi tedesca; gli slovacchi europeisti e russofili. È tutta ricchezza che arriva, la dote della diversità non si chiama “dote” per niente».
C'è una base culturale arrivata dall'est e che abbiamo integrato ad ovest senza pensarci?
«Per rispondere basta guardare alla ricchezza storico-culturale di questi paesi. La cesura della guerra fredda e quarant’anni sotto il dominio di Mosca non hanno cancellato la loro letteratura, le arti, la storia, il patrimonio culturale tutto: quattro decenni di cappa moscovita non hanno distrutto queste nazioni. Che fossero di là della cortina di ferro ci fa ancora pensare che fossero dei servi di Mosca punto e basta, ci ha fatto dimenticare che il loro dna, i loro valori culturali sono europei, storicamente europei, e sono tornati a galla».
Mi sembra che la politica dell'Ue vada verso una chiusura statalista più federale, più simile all'America che sul solco del sogno di un'Europa unita per davvero.
«È il comportamento dei governi. L'Europa è ancora vincolata all'idea di stato-nazione, ed è un problema. Ma anche nel momento in cui questa idea verrà meno, tutte le differenze culturali dovranno necessariamente restare: se fossimo tutti uguali sarebbe l'omogeneizzazione, torneremmo al tempo dei grandi imperi. La diversità va però incanalata in uno spirito europeo fatto di approcci e di modi di pensare che riescano ad amalgamarsi: credo sia un valore essenziale dell'Europa che è e, soprattutto, dell'Europa che sarà».
Foto di testa da muslimpage/Flickr