Mercantili, i protagonisti senza gloria del Mediterraneo
Published on
Un mondo senza profili Twitter, che non finisce nei programmi televisivi. È il mondo della vita quotidiana dei lavoratori del mare, quando incontrano i profughi nel giorno decisivo della loro fuga. In partnership con QCode Magazine.
Dopo troppi mesi di naufragi, pandemie e sequestri ingiustificati, è un sollievo vedere finalmente la flotta delle navi delle ONG di ritorno nelle acque a nord della Libia, una terra e un mare dove ogni giorno si consumano tragedie inaudite.
A potenziare il mio entusiasmo, c’è anche una nuova nave, gestita da un gruppo messo insieme da Pia Klemp, ex-capitana della Iuventa, simbolo della persecuzione politica dei soccorsi nel Mediterraneo, sostenuta da un iconico, quanto politicamente impegnato e universalmente amato pittore di graffiti.
Eppure, a far fronte alla crisi umanitaria – e umana – del Mediterraneo non ci sono solo le ONG. In quelle acque, da sempre - e ogni giorno -, operano le navi mercantili.
Il caso Etienne
Per 40 giorni, la petroliera Etienne ha chiesto invano un porto che autorizzasse lo sbarco dei 27 naufraghi soccorsi il 4 agosto scorso. Gli appelli di Said, fratello di Ousman, uno dei sopravvissuti a bordo del mercantile, e del capitano Shaaban, che, al comando del cargo Talia, ha aspettato per quasi una settimana l’autorizzazione a sbarcare, sono però caduti nel vuoto.
Quella dell’Etienne è stata l’attesa finora più lunga nel Mediterraneo, ONG incluse. «Il centro di coordinamento del soccorso marittimo maltese mi ha chiesto di dirigermi verso un’imbarcazione in difficoltà. Sono immediatamente intervenuto», riferisce Volodymyr Yeroshkin, comandante della petroliera battente bandiera danese.
Ma a salvataggio avvenuto, La Valletta si è rifiutata di autorizzare lo sbarco dei naufraghi. E intanto Copenaghen tratta con Tunisi, affinché i profughi possano essere portati in Tunisia.
Quello dell’Etienne non è il primo caso in cui un centro di coordinamento europeo indica a un mercantile di soccorrere un barcone in acque internazionali e poi abbandona la nave con i naufraghi in balia delle onde delegando l’attribuzione di un porto di sbarco ai paesi costieri africani – negando ai profughi qualsiasi possibilità di richiedere asilo.
Le navi mercantili sono le uniche che, anche durante i mesi di quarantena, sono rimaste costantemente in mare, svolgendo le tratte commerciali loro stabilite, ma essendo anche chiamate a colmare una letale lacuna di soccorso durante una crisi che non si è mai fermata.
Tramite il coinvolgimento di navi non specializzate nel soccorso umanitario che molti dei salvataggi svolti da mercantili si trasformano in azioni criminali di respingimento in mare, contrari sia al diritto umanitario internazionale che al diritto del mare.
La prima missione di soccorso civile a cui ho preso parte era nelle acque tra Libia e Italia, nell’autunno 2018, a bordo dell’Open Arms. Durante il pattugliamento nella zona SAR – la zona di Ricerca e Soccorso – incrociammo il mercantile Asso Ventotto.
Dal ponte della nave umanitaria, l’equipaggio mi raccontò di quando, qualche mese prima, gli umanitari avevano tentato inutilmente di impedire il respingimento di 101 richiedenti asilo agli orrori della Libia.
Navigando vicino alla piattaforma della Mellitah Oil and Gas a largo di Misurata, videro chiaramente la Asso Ventotto che invece di comunicare il salvataggio ai centri di coordinamento e soccorso, riceveva istruzione dal manager della piattaforma di far rotta su Tripoli.
Due anni dopo, il comandante del mercantile italiano e un rappresentante dell’armatore sono accusati di respingimento illegale.
Ma la maggior parte dei respingimenti commessi dai mercantili non sono frutto di una dolosa iniziativa degli equipaggi, e derivano invece dal coordinamento senza scrupoli dalle istituzioni.
I respingimenti privatizzati sono il nodo cruciale di una strategia istituzionale volta a delegare i "pushbacks" ("respingimenti", tdr.) alle navi commerciali, con l’ordine di riportare le persone nel luogo da cui fuggono. Una strategia della nuova politica europea che ha fatto sì che, nell’estate del 2018, l’Organizzazione marittima internazionale (IMO) abbia riconosciuto alla Libia - un paese tuttora in guerra civile - un’area di ricerca e salvataggio da amministrare autonomamente.
Storie di mercantili
Il 7 novembre 2018, 93 persone vengono respinte a forza verso l’inferno libico dal Nivin, il mercantile che sotto coordinamento della Guardia costiera italiana li aveva soccorsi in mare aperto. Ai naufraghi viene inizialmente detto che sarebbero stati portati in Italia, ma il soccorso viene delegato alla cosiddetta Guardia costiera libica che indica Misurata come porto di sbarco. I richiedenti asilo, respinti in Libia, si chiudono nella stiva del mercantile, producendo uno stallo di dieci giorni risolto solo con l’intervento violento delle forze di sicurezza libiche.
Il 10 febbraio 2019, 62 persone lasciano al-Khoms e trascorrono un giorno tra le onde del Mediterraneo centrale prima di venir soccorsi dal BFP Galaxy. L’equipaggio del mercantile fornisce cibo e svela ai naufraghi l’intenzione di far rotta verso l'Europa, ma la mattina entra al porto di Tripoli. Il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo italiano (IMRCC) dichiara di essere stato informato da un velivolo di avvistamento, ma di aver passato l’informazione alle "autorità competenti libiche".
È ancora una volta l’IMRCC italiano che il 30 maggio 2019 incarica il rimorchiatore Maridive 601, battente bandiera belga, di soccorrere un barcone. Nonostante gli obblighi di legge con la ratifica delle convenzioni internazionali, Roma si rifiuta di fornire un porto di sbarco al mercantile e invia un’e-mail con l’ordine di riferirsi alle autorità libiche, tunisine o maltesi. Il capitano fa rotta verso il porto più vicino, Zarzis, in Tunisia. L’autorizzazione allo sbarco arriva solo dieci giorni dopo.
Nel doloso vuoto strategicamente lasciato nel Mediterraneo dalle istituzioni europee, i mercantili sembrano ormai essere complici dei processi di respingimento assieme alla Guardia costiera libica, condannando donne, uomini e bambini a tornare alle torture e ai soprusi della Libia da cui fuggono. O forse no.
La storia di El Hiblu 1
A marzo dell’anno scorso, navigavamo a circa 40 miglia nautiche a nord della Libia a bordo della Alan Kurdi, la nave di salvataggio dell’organizzazione tedesca Sea Eye. Eravamo l’unica nave di soccorso nell’area, dato che – esattamente come durante lo scorso lockdown – ogni altra nave umanitaria era bloccata in porto con pretestuosi ostacoli amministrativi.
La sera del 27 marzo, il canale radio delle emergenze nautiche trasmette una richiesta di soccorso lanciata dal pilota di un aereo dell’operazione Sophia. L’aviatore sta coordinando una petroliera, El Hiblu 1, verso un gommone con circa 100 persone a bordo, 80 chilometri a nord di Tripoli.
Il mercantile era partito da Istanbul pochi giorni prima, ed era in rotta verso la capitale della Tripolitania quando ha deciso di rispondere alla richiesta di soccorso e approcciare il barcone.
Il salvataggio dura diverse ore. Dal ponte dell’Alan Kurdi seguiamo attentamente le comunicazioni radio tra l’equipaggio dell’El Hiblu 1 e il velivolo militare. I marinai chiedono aiuto: le persone sul gommone si rifiutavano di salire a bordo della petroliera non appena vengono a conoscenza della rotta della nave. L’aereo della missione europea non offre ulteriore assistenza.
Le comunicazioni si interrompono solo a tarda notte. A bordo dell’Alan Kurdi temiamo di aver assistito all’ennesimo respingimento. Ma veniamo smentiti la mattina seguente, quando il sistema di tracciamento della petroliera indicato sulle nostre carte elettroniche, indicava il nord, in direzione di Malta.
Si è parlato molto della dinamica che ha portato il capitano del mercantile a decidere di girarsi di 180°e a dirigersi verso Malta. La stampa ha diffuso per giorni la notizia del dirottamento della petroliera. Alcuni politici hanno posto tutta la loro attenzione sul caso El Hiblu 1 in quei giorni, scandalizzati dall’ingratitudine degli immigrati del Mediterraneo, trasformati in pirati contro i loro stessi soccorritori.
Ad oggi, nonostante la mancanza di prove di alcun comportamenti violento, tre persone, due delle quali minorenni, sono accusate di ammutinamento davanti ai tribunali di Malta. Il caso El Hiblu 1 non è il primo episodio in cui un capitano si rifiuta di riportare in Libia i sopravvissuti, dichiarando lo stato di pericolo per il suo equipaggio.
Nell’estate del 2018 una nave di rifornimento italiana, la Vos Thalassa, si rifiuta di consegnare i 67 sopravvissuti soccorsi nelle acque internazionali alle motovedette libiche. Sbarcherà i naufraghi in Italia. Sia le autorità italiane che quelle libiche dichiarano che il trasbordo dei naufraghi sulle motovedette dirette a Tripoli non è potuto avvenire a causa di un presunto ammutinamento a bordo della nave mercantile. Verrà aperta un’inchiesta con l’accusa di dirottamento.
Un anno dopo, tutti gli imputati verranno assolti: il giudice ritiene le azioni dei naufraghi legittime perché giudica “incontestabile che tutti i soggetti imbarcati sul Vos Talassa abbiano visto violato il loro diritto a essere portati in un luogo sicuro”. «I capitani dei mercantili dovrebbero essere incoraggiati a soccorrere chi rischia la vita in mare in qualsiasi momento e luogo», afferma pubblicamente il capitano della Tallia, il mercantile che lo scorso luglio rimase coinvolto in uno stand-off di cinque giorni senza che ne Malta ne Italia concedesse un porto ai 52 naufraghi soccorsi.
Lo sanno bene Pascual Dura e il suo equipaggio, che a bordo del piccolo peschereccio spagnolo Nuestra Madre de Loreto, hanno resistito 10 giorni nella tempesta rifiutandosi di consegnare 12 profughi alle autorità libiche. Ho conosciuto questo piccolo determinato gruppo di pescatori in mare per la prima volta nel pieno della loro vincente battaglia, che si è conclusa con lo sbarco a Malta. Poi li ho rincontrati un anno dopo: hanno costruito una cabina aggiuntiva nella stiva del piccolo scafo, per essere questa volta preparati, nel caso dovessero trovarsi nelle stesse circostanze.
C’è un pezzo di Mediterraneo che non arriva alle cronache. È un mondo senza profili Twitter, che non finisce nei programmi televisivi. È il mondo della vita quotidiana dei lavoratori del mare, quando incontrano i profughi nel giorno più decisivo della loro fuga. È il mondo di chi vive la crisi da solo, in mezzo al mare, e che senza eroismi decide di salvare vite accettando le conseguenze.