Dove vanno i Balcani?
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I Balcani: 7 Paesi che puntano all'Europa, e un'intera regione che deve fare i conti con le interferenze straniere, le contraddittorie spinte interne verso un progetto comune e una chiusura nazionalista. Senza dimenticare la pressione della società civile che chiede più democrazia. Un panorama su questi Paesi che hanno bisogno di un profondo e radicale cambiamento per trovare la propria strada.
Che i Paesi balcanici vedano all'orizzonte l'ingresso nell'Unione europea, sembra essere un processo storicamente incontrovertibile. La Slovenia e la Croazia fanno già parte dell'UE; la Serbia è in fase di negoziazione; Montenegro e Macedonia hanno ottenuto lo status di Paese candidato. Ad uno stadio più arretrato troviamo il Kosovo e la Bosnia Erzegovina, che provano comunque a guardare in questa direzione.
Spinte contrastanti tra Jugosfera e isolamento
Non ha mai cessato di esistere una certa idea di "Jugosfera", nonostante la diffidenza verso il regionalismo (un fantasma della vecchia Jugoslavia) proveniente soprattutto da parte slovena e croata. Si tratta di un'entità astratta soprattutto a livello economico, tuttavia anche l'immaginario culturale e simbolico di questi Paesi risulta, per certi versi, fortemente convergente.
Esistono in ogni caso molti altri elementi irrisolti che creano instabilità, come i forti partiti nazionalisti che non rinunciano a cavalcare l'etnopolitica basata sulla divisione, sul settarismo e sul conflitto. Le due cose non sono necessariamente in contraddizione: tra questi Paesi persistono elementi di convergenza (legati agli interessi economici e alla disillusione dei giovani, che rifuggono dall’impegno civico e dalla politica) e di divergenza (legati alle migrazioni, che portano all’invecchiamento della società, e ad una certa tendenza in senso conservatore).
Identità, nazionalismo e relazioni internazionali
Non si può parlare di direzione senza parlare di identità, e della sua relazione con il nazionalismo. Anche se resta sottotraccia ed è sempre pronto a riemergere, il nazionalismo è comunque un’arma che nessuno teme di usare, come è più evidente nei momenti di crisi (basti pensare a quella attuale dei migranti).
A questo si combinano le influenze internazionali che continuano ad agire in modo rilevante nella regione. Ivo Sanader, ex Premier croato di area HDZ (partito nazionalista), dovrà subire un nuovo processo per una torbida vicenda di corruzione internazionale, scoperta anche grazie alla Magistratura austriaca. La normalizzazione della destra serba è merito di alcune aree politiche europee e del Governo statunitense (come accadde in Ungheria): è stata resa politicamente presentabile in nome della stabilizzazione dell'area, in modo da poter realizzare le riforme e gli accordi regionali e internazionali (la spinosa questione del Kosovo e la consegna dei criminali di guerra, per esempio) che i progressisti non avrebbero osato fare. L'attuale Premier serbo Vučić sta cercando infatti di proporsi come leader moderato e guida regionale.
La Serbia e Putin: un alleato da copertina
A proposito di influenze straniere, la Russia, che ha una tradizione di vicinanza religiosa e culturale con la Serbia, oggi assume un ruolo di appiglio alternativo per chi governa a Belgrado. Ha molto appeal sulla popolazione, soprattutto in Serbia, ma mette poca carne al fuoco, e deve fare i conti con l’evidente penetrazione degli interessi americani nell'area.
La verità è che le affinità ideali sono puramente di facciata e lasciano il campo agli interessi concreti: Vučić si fa spalleggiare da Mosca quando l’opinione pubblica si innervosisce, e Putin si fa stendere tappeti rossi quando visita Belgrado. Ma, nonostante le promesse, il gasdotto South Stream dai Balcani non ci è mai passato; per di più Bosnia Erzegovina e Serbia pagano tariffe piuttosto alte a Gazprom. E in trattativa segreta in qualità di investitori per il gigantesco progetto – a dire il vero, sfacelo – urbanistico di Beograd Na Vodi non troviamo Mosca, bensì gli Emirati Arabi Uniti (le cui relazioni con la Serbia risalgono all’epoca dei Paesi non allineati, convertiti oggi al turbo-capitalismo).
I cittadini scendono in piazza per il cambiamento
Nell’ambiente sociale opprimente di queste fragili democrazie (in cui la religione ha la sua parte di responsabilità), trova spazio una società civile dalla coscienza europeista? Dopo vent'anni di assenza di mobilitazione spontanea, è stata una sorpresa per tutti l'esplosione (anche violenta) dei movimenti popolari di protesta in Bosnia Erzegovina: nel 2014 hanno reclamato con forza una riforma degli accordi di Dayton, una delle cause della paralisi del Paese, trasformato in una vera e propria etnopoli e con tassi di povertà e disoccupazione altissimi.
L'esplosione è stata però evanescente: le spinte dal basso si sono esaurite e non sono riuscite a strutturarsi, mentre la pressione dei media e delle autorità ha criminalizzato pesantemente il movimento. Del resto, i media nella regione sono controllati da un'oligarchia vicina ai partiti politici (quando non direttamente scesa in politica). Anche in Macedonia si è assistito di recente ad un crescente malcontento: 20 mila persone sono scese in piazza per chiedere uno Stato più plurale e meno corrotto. Nonostante la massiccia emigrazione giovanile, sono pur sempre segnali di vitalità per le società dei Paesi post-jugoslavi, costrette in un ambiente così asfittico.
"Invece di avere un paese ne abbiamo sei"
I Paesi della regione hanno bisogno di una rinascita, di una nuova coscienza di sé per poter ripartire, evitando la rimozione delle responsabilità storiche e affrontando il proprio passato. L'Albania docet: qui, dove con un colpo di spugna si è rimosso del tutto il passato comunista, una vera ripresa non è ancora avvenuta.
Se la Jugoslavia, da parte sua, può dirsi definitivamente morta, nella regione sono in molti nella regione a chiedersi se ne sia valsa la pena. E se mai esisterà di nuovo, potrebbe essere all'interno dell'Unione europea. Gli abitanti dei Balcani sanno che l'indipendenza per cui hanno tanto lottato oggi è quasi un'illusione, e dentro l'UE, singolarmente, conteranno ancora meno di adesso. Il consenso popolare all’ingresso nell'UE si aggira intorno al 50% in ogni Paese: paradossalmente, la tendenza è più positiva in paesi come Albania e Kosovo, idealmente più lontani dai confini europei.
Il trailer di The long road through Balkan history
Inevitabile ripensare al documentario The long road through Balkan history, in cui gli scrittori Miljenko Jergović e Marko Vidojković attraversano la regione a bordo di una Jugo, intervistando politici e accademici per capire a cosa abbia portato questo processo. «Cosa abbiamo ottenuto? Niente. Invece di avere un Paese ne abbiamo sei, dove ognuno può essere un idiota quanto vuole. Sembra che l'obiettivo fosse questo,» è la loro disincatata conclusione. «La gente non capisce che una persona può essere macedone, serba, croata, o albanese senza essere idiota. Le persone qui pensano che si debba essere idioti per avere successo. Lungo l’autostrada della Fratellanza e dell’Unità, si vedono solo due tipi di edifici: chiese o moschee, e stazioni di servizio. Direi che riassume bene la vecchia storia su identità, libertà e indipendenza».
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Il 31 ottobre al Polski Kot di Torino si è tenuto un dibattito con alcuni autori di East Journal, dal titolo Dove vanno i Balcani?.
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