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Damasco: il profilo basso è di rigore

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Se un attacco alla Siria resta una possibilità remota, Damasco finge comunque la pacificazione. Perché l’America può colpire dove e quando vuole.

Stretta tra un Iraq devastato ed una Palestina interminabilmente occupata, la Siria del giovane Presidente Assad sembrava fino all’inizio del mese di Aprile essere stata miracolosamente dimenticata dai piani del Pentagono.

E’ stato ultimamente posto rimedio alla dimenticanza, e anche se oggi la febbre sembra essere un pò scesa, per un attimo ci si è chiesti se Damasco non fosse destinata a pagare le conseguenze della vittoriosa campagna irachena. La stampa occidentale, sempre pronta, è apparsa scoprire con stupore che la Siria non era esattamente una democrazia, e che il regime instaurato dal generale Hafez el Assad presentava delle inquietanti similitudini con il defunto sistema di Saddam Hussein.

Inimicizia tra Damasco e Bagdad

La Siria ha effettivamente da molto tempo tutte le carte in regola per guadagnarsi un posto di tutto rispetto nell’”asse del male” designato dalla Casa Bianca. Un sostegno sbandierato all’Hezbollah libanese, la presenza sul suo territorio di militanti islamisti palestinesi, un’intransigenza rivendicata sulla questione del Golan, una Repubblica ereditaria… Elementi sufficienti per giustificare le sottili minacce americane. Ciononostante è piuttosto stupefacente che gli adoratori della democrazia abbiano reagito così tardi. Appena qualche mese fa, il console americano a Damasco si è visto rifiutare l’ingresso in un ristorante alla moda, col solo pretesto della sua nazionalità, e durante le manifestazioni “spontanee” di sostegno all’Intifada palestinese, la folla converge puntualmente verso l’ambasciata statunitense. All’epoca, questo genere di avvenimenti non ha comunque suscitato la collera dei falchi di Washington.

Si può dunque legittimamente porre la questione della credibilità americana nel momento in cui i suoi dirigenti fanno la voce grossa. Gli argomenti che essi hanno mobilizzato per giustificare le proprie dichiarazioni erano del resto piuttosto ridicole: si accusava soprattutto Damasco di aver sostenuto il regime vicino accogliendo a braccia aperte i pezzi grossi decaduti, inviando migliaia di combattenti per lottare contro l’America in Iraq, e, ciliegia sulla torta, di detenere armi di distruzione di massa. Argomenti alla moda, in fin dei conti, ma non più convincenti di quelli che Powell aveva brandito davanti all’ONU per giustificare l’operazione “Libertà irachena”. Chiunque sia un minimo al corrente dei conflitti strategici nella regione, sa che è sempre esistita una profonda inimicizia tra Damasco e Bagdad: sospettare Damasco di collusione con Saddam Hussein è un’assurdità offensiva per chi si ritiene anche approssimativamente informato sul dossier mediorientale. Quanto alle armi di distruzione di massa o chimiche, stiamo ancora aspettando che l’arsenale iracheno venga scoperto…

Gettare uno sguardo a Islamabad e Tel-Aviv

Questo episodio rivela bene la caratteristica essenziale della politica estera americana: lungi dall’essere fondata su una visione a lungo termine, essa sembra piuttosto adattarsi agli imprevisti, basandosi su dei presupposti ideologici piuttosto dubbi. Approfittando della vittoria, gli strateghi americani hanno forse per un momento pensato di “finire il lavoro” (espressione che si attiene perfettamente alla terminologia di Gorge Bush), inviando verso Damasco le proprie truppe e imbarcando qualche giornalista… Probabilmente si è trattato solo di far pressione sulla Siria, ma la situazione in Iraq li ha senza dubbio ricondotti alla realtà delle relazioni internazionali: prima di rimodellare il Medio Oriente che essi hanno da tanto tempo contribuito ad annientare, gli americani devono pacificare e democratizzare l’Iraq, cosa che è lontana dall’esser raggiunta. Le minacce contro la Siria appaiono dunque in questo contesto se non ridicole almeno inutili: aggiungere alla prova di forza gli sbraiti di un Donald Rumsfeld sempre più egocentrico, è sottostimare la capacità d’analisi dei dirigenti siriani. Gli Stati Uniti hanno certamente ottenuto da Damasco ciò che essi desideravano, e le minacce sono svanite. Resta l’effetto di stile, ma anche là, l’amministrazione Bush non aveva bisogno di dar prova di essere il nuovo sceriffo della scena mondiale. Tutti hanno ormai capito che l’America colpisce chi vuole, e quando vuole.

L’attitudine dei siriani è d’altra parte assai prudente a riguardo: le "masse arabe”, di solito così pronte ad infiammarsi (come se fossero per natura cieche e avide di sangue, contrariamente alle “masse occidentali”) non si sono mosse. Gli abitanti di Damasco seguono saggiamente, e come sempre, la linea ufficiale imposta dall’alto. Gli argomenti sollevati dalle autorità (che erano già quelli dell’ambasciatore siriano all’Onu ai tempi dei dibattiti sull’Iraq) sottolineano del resto molto giustamente uno dei numerosi paradossi della politica americana: se gli Stati Uniti vogliono effettivamente pulire la regione di tutte le armi non convenzionali, che comincino ad andare ad ispezionare Islamabad, alleato di circostanza, e Tel-Aviv, amico di sempre, e oggi più che mai, della Casa Bianca.

Translated from Shérif, fais-moi peur !