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Dallo Zen a Ballarò: alla ricerca di una nuova "centralità"

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Guido Noto

Palermo

(Opinione) C’è chi dice che andrebbero rasi al suolo per far spazio ad aree verdi, come l'archistar Fuksas. O chi ne denuncia le dinamiche sociali caratterizzate da malaffare ed omertà, come Stefania Petyx, giornalista. Resta il fatto che i quartieri popolari, come lo Zen e Ballarò, rappresentano per Palermo un problema sempre attuale e soggetto al rischio di banalizzazioni e facili condanne.

Palermo non è di certo l’unica città nella quale è presente la segregazione sociale. Si pensi ad esempio al quartiere Scampia di Napoli, alle banlieue di Parigi, alle famose favelas brasiliane o alle villas argentine. Perché si creano queste "roccaforti del malaffare"? Queste comunità chiuse che anche le forze dell’ordine preferiscono evitare?

La nascita dei quartieri "a rischio" è strettamente legata al fenomeno dell’urbanizzazione. Le città si espandono velocemente e attraggono sempre più persone fino a quando l’offerta di lavoro non è più in grado di soddisfare la crescente domanda. Le nuove comunità si adagiano così ai margini delle città e per poter sopravvivere si arrangiano come possono creando nuove economie che si basano anche sull’illecito. Altre volte sono invece dinamiche interne all’area urbana che determinano la costituzione di piccoli presidi di "esclusi": i centri storici abbandonati, le infrastrutture carenti, le ricostruzioni mai avvenute.

Affrontare il tema dell’inclusione sociale non è semplice: l’impatto delle politiche intraprese non è misurabile, ed i risultati emergono a distanza di anni. L’opinione pubblica, però, giudica e sentenzia in pochi giorni se non in poche ore. E così accade che un servizio in TV o un articolo scatenino una valanga di giudizi e soluzioni drastiche.

Personalmente, mi risulta difficile immaginare di riuscire ad includere una comunità segregata abbattendo le case in cui risiede, o adoperando il pugno duro contro chi si sente già perseguitato ed escluso dalla società. Se una fetta numericamente rilevante della città non si sente partecipe della vita sociale e diffida della legge e delle amministrazioni locali la colpa non è certamente attribuibile ai singoli individui. Questi sentimenti si sono sviluppati nel tempo e sono ormai radicati nella cultura delle comunità dei quartieri popolari. Cambiare cultura, educare, è una delle sfide più impegnative che una città possa affrontare, e le resistenze al cambiamento sono sempre in agguato. Un esempio? Padre Pino Puglisi non è stato ucciso perché durante le celebrazioni sfidava a tu per tu gli "uomini d’onore" di Brancaccio, quartiere della periferia sud-est di Palermo. O almeno non solo per questo: don Puglisi principalmente toglieva i giovani dalla strada e così facendo minava il futuro delle stesse cosche.

Ma non crediate che quando parlo di educare e cambiare cultura mi riferisca esclusivamente alle persone che vivono nei quartieri a rischio, i primi che devono accettare il cambiamento sono coloro che hanno la possibilità di prendere pienamente parte alla vita sociale della città, quelli che risiedono nei "quartieri bene".

Infatti, per sconfiggere la segregazione non serve portare i ghetti alla città, ma la città nei ghetti. È necessario incidere sulla "centralità" dell’area a rischio. Il concetto di centralità si fonda, innanzitutto, sul presupposto che anche un quartiere socialmente periferico debba essere accessibile e ben collegato al resto della città. Inoltre, le aree periferiche o marginali devono poter fungere da nuovo centro di interesse per la comunità, in grado di attrarre cittadini di altre zone e trattenere (grazie all’erogazione di servizi e ad un certo sviluppo socio-economico) i residenti della zona. Questa attrattività può essere perseguita attraverso la creazione di "valore pubblico" (ossia nuove infrastrutture e servizi), ma anche ed in gran parte attraverso l’azione di soggetti privati.

A Palermo non mancano esempi virtuosi in tal senso. Si pensi al Centro Astalli che cafèbabel Palermo vi ha raccontato qualche giorno fa, o all’associazione Laboratorio Zen Insieme.

Quest’ultima nasce nel 1988, ed è la prima a mettere piede allo Zen 2 di Palermo. Nasce «con l’esigenza di rispondere alle esigenze che arrivano da una periferia in cui gli abitanti avevano occupato abusivamente gli edifici di edilizia popolare appena ultimati per sfuggire da un centro storico dove le abitazioni, danneggiate durante la guerra, continuavano a crollare per l’incuria delle istituzioni».

Secondo Mariangela Di Gangi, presidente dell’associazione, la segregazione «si combatte con la presenza delle istituzioni e non soltanto attraverso la loro azione repressiva». Per questo motivo, oltre ai diversi progetti che da anni intraprende nel quartiere, Laboratorio Zen Insieme si è impegnato nel riattivare la discussione sullo Zen 2 con l’Amministrazione comunale tramite il ripristino di una piazza. Una piazza non prevista dal piano regolatore, che con gli anni è diventata una discarica a cielo aperto di rottami, immondizia e detriti di amianto. L’associazione, attraverso un’azione di bonifica volontaria di parte di questo spazio compromesso, intende restituire alla comunità della periferia un luogo collettivo, di scambio e confronto sociale.

La strada intrapresa da questa associazione, così come i più svariati progetti di inclusione sociale promossi da altri attori del Terzo settore, costituiscono un momento importante per re-introdurre la città nelle sue stesse periferie.

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