Dal ritorno: intervista con Giovanni Cioni
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Nuovo appuntamento con AstraDoc - Viaggio nel Cinema del Reale: il film in proiezione è Dal ritorno, di Giovanni Cioni. Abbiamo avuto la fortuna di intervistare il regista, con il quale abbiamo discusso di ritorni, ricordi ed incredulità tra il passato ed il presente.
L'appuntamento di questa settimana con AstraDoc - Viaggio nel cinema del reale è con Dal ritorno di Giovanni Cioni, toccante racconto incentrato sulla figura di Silvano Lippi. Silvano era arruolato in Grecia nel 1943 quando fu fatto prigioniero dei Tedeschi e deportato a Mauthausen dove fu addetto ai forni crematori come sonderkommando. Abbiamo incontrato il regista Giovanni Cioni, che sarà presente in sala, per discutere del film, della sua genesi e del suo significato. Ricordiamo che Dal ritorno sarà proiettato presso il cinema Astra di via Mezzocannone questa sera, venerdì 5 febbraio, alle ore 21.
Cafébabel Napoli: Questa sera sarai ospite di AstraDoc, presso il cinema Astra: è la tua prima visita a Napoli o ci eri già stato?
Giovanni Cioni: Sono contento di tornare a Napoli, perché ci sono stato spesso quando ho girato il film In purgatorio. Per alcuni anni sono venuto regolarmente: ora è da un po’ che manco stabilmente, ma ci sono passato varie volte. Ormai la conosco abbastanza bene.
Cafébabel Napoli: Come hai scoperto Napoli?
Giovanni Cioni: Ho scoperto Napoli grazie ad un amico originario della città che ho conosciuto a Bruxelles, dove vivevo: lì mi raccontò del culto delle anime del purgatorio, ispirandomi al quale ho girato il film. Lui è uno dei tanti napoletani che, fieri della loro terra, non tornerebbe a vivere in città purtroppo. Credo che sia una città di cui si parla molto e forse ci si innamora anche dei discorsi che si fanno su di essa.
Cafébabel Napoli: Come ti sei sentito nel tempo che hai trascorso in città?
Giovanni Cioni: Non so, una città la devi anche vivere. Con uno sguardo esterno... Ricordo che, negli anni in cui l’ho frequentata più assiduamente, è una città in cui mi sono sentito adottato, accolto nonostante le difficoltà che ci sono nel viverci.
Cafébabel Napoli: A questo punto, siamo curiosi di sapere quale sia il tuo giudizio su Napoli.
Giovanni Cioni: Rispetto alle descrizioni negative di Napoli ed alla diffusa idea che sia una città caotica e dove non funzioni nulla, ti sorprende scoprire che le cose, in realtà, funzionano. La mia riflessione è un po’ banale: è una città che ha affrontato terremoti, modificazioni e traffici di ogni genere, ma è anche una delle città più vive ed inventive che conosca. Beninteso, ritengo che questa vivacità possa diventare una soluzione un po’ comoda per giustificare il resto. Continuare a lottare e sopravvivere è faticoso, lentamente esaurisci le energie.
Cafébabel Napoli: Concentrandoci su Dal ritorno, come hai conosciuto Silvano e come è nata l’idea di girare questo film?
Giovanni Cioni: Ho incontrato Silvano tramite un docente della scuola di mio figlio. Mio figlio tornò un giorno da scuola raccontandomi che era venuto un signore a raccontare la sua esperienza di deportazione, un racconto che lo aveva impressionato. Dopo qualche tempo il professore, che mi conosceva e sapeva che giravo film, ci invitò a cena. Lì incontrai Silvano e lui subito mi disse «Io ho tante cose da raccontare, vorrei tornare laggiù e vorrei che tu mi accompagnassi». Il progetto è nato così, da questo incontro e dall’idea di fare un viaggio. Lui voleva tornare, diceva, «dove la mia vita è rimasta. Sono qui con te, a Sesto fiorentino – dove viveva – però in realtà sono sempre laggiù». È questa dimensione qui che volevo esplorare.
Cafébabel Napoli: Avevi immediatamente colto questa contemporaneità e cospazialità?
Giovanni Cioni: Nel senso che, inizialmente, gli dissi che ci avrei pensato. Volevo capire come avrei fatto il film: non volevo registrare una testimonianza, per la semplice ragione che questa contemporaneità mi impressionava. Qualche tempo dopo gli scrissi ed inviai una lettera, che è diventata il punto di partenza del film. Il film è come una lettera che rivolgo ad una persona che mi ha chiesto di accompagnarlo per un viaggio «laggiù».
Cafébabel Napoli: Ritieni che Dal ritorno sia un film sulla memoria?
Giovanni Cioni: Per me, Dal ritorno non è un film sulla memoria. È un film su un uomo, che sopravvive e sta sparendo – un uomo solo, che sopravvive e ricorda, mentre chi era ed ha vissuto con lui è morto. È un film sul racconto e sui luoghi del suo racconto. È anche una riflessione sulla scomparsa dei testimoni: siamo soli e, senza testimoni, dobbiamo occuparci di ricollegare storie e luoghi di una storia successa e senza fine, che forse sta ancora succedendo. Questa è, in sintesi, la storia del film.
Cafébabel Napoli: Quale rapporto aveva Silvano con i suoi ricordi? Aveva raccontato la sua storia prima di conoscerti?
Giovanni Cioni: Quando racconti una storia di sopravvivenza, come quella di Silvano, descrivi anche l’incredulità con cui lui si è confrontato al ritorno. L’incredulità di chi ascoltavano le sue parole ma anche la sua, dell’esser vivo e del poter farsi una vita dopo – di attraversarla in silenzio, come nel ventre di una balena. Per sessant’anni Silvano non ha raccontato più nulla: soffriva di confrontarsi con questa incredulità. Nel 2000 un amico lo convinse a scrivere un libro e tornare a Mauthausen. Successivamente è stato ospite della trasmissione Rai Chi l’ha visto? per rintracciare una ragazza italiana che, su un’isola greca, lo aveva salvato dalla fucilazione ed ha cominciato a girare per le scuole per raccontare la sua storia. In realtà, quando ci siamo incontrati, Silvano la sua storia l’aveva già raccontata. Io non racconto nulla di nuovo. Piuttosto prendo un uomo oggi e pongo una domanda sul senso di raccontare e del sopravvivere.
Cafébabel Napoli: Puoi sintetizzarci la storia della deportazione di Silvano?
Giovanni Cioni: La storia della sua deportazione è breve: Silvano era un soldato italiano, di stanza in Grecia, trovatosi allo sbando dopo l’8 settembre 1943. Per aver ferito un ufficiale delle SS, fu deportato a Mauthausen e fu assegnato al Sonderkommando, tra gli addetti alle camere a gas.
Cafébabel Napoli: Qual è stata la tua posizione, da regista, rispetto al racconto?
Giovanni Cioni: Considera due cose. Da un lato, ho deciso di non fare un film storico. Avevo letto molto della deportazione, dell’olocausto, sullo sterminio prima di conoscere Silvano. Fa parte del mio bagaglio culturale. Ma, quando ho deciso di girare il film, ho deciso di non documentarmi ulteriormente e di rapportarmi a Silvano e con le sue parole come se sentissi questa storia per la prima volta – come quando lui tornò e cominciò a raccontare. Ho cercato di mettermi in una condizione di incredulità, arrivando al chiedergli «Ma com’è possibile quel che racconti?» Era un approccio con il quale potevo interrogare l’uomo, il dopo.
Cafébabel Napoli: Da cosa deriva la scelta di adottare tale approccio?
Giovanni Cioni: Perché pensavo che, documentandomi e creando un rapporto tra “chi sa” e “chi è testimone”, avrei falsato la domanda posta all’inizio del film. Era indispensabile che io non sapessi più di quanto sapeva lui, un approccio quasi anti-storico. Dall’altra parte, ho deciso addirittura di non leggere il suo libro. Non gliel’ho mai detto, penso che non l’avrebbe presa bene. Avevo solo quello che lui mi raccontava. Non volevo andare a cercare documenti: il film è un incontro.
Cafébabel Napoli: Hai mai discusso con Silvano della successiva rappresentazione della deportazione e dell’olocausto fatta da autori come Primo Levi?
Giovanni Cioni: Mi è successo di parlare di Primo Levi con Silvano e lui non l’ha mai letto. Questo apre una discussione sulla solitudine del sopravvissuto. Silvano non era stato deportato perché partigiano o perché ebreo. Al suo ritorno, non aveva persone con cui condividere e riflettere quanto aveva vissuto. Mi ha raccontato che dopo che il padre lo aveva portato in cura psichiatrica, quando decise di non parlarne più, dalla rabbia e dalla disperazione distrusse tutti i documenti che aveva. Non cercò alcun contatto. Ha cercato di vivere la sua vita.
Cafébabel Napoli: La scelta di dimenticare potrebbe essere dovuta al non voler “distruggere” la fragile incredulità della vita quotidiana?
Giovanni Cioni: Penso di sì. Non so fino a che punto possa averlo aiutato. C’è anche un’altra dimensione nel racconto del film: quando stavamo per cominciare, purtroppo Silvano ebbe un ictus. Attendemmo che si riprendesse e cominciammo in ospedale: l’arco narrativo del film è quello di un uomo che ha lottato per la sopravvivenza e sta ricominciando a lottare per la sua vita. Io avevo l’immagine di un uomo che si mette nel ventre di una balena, come Giona, in silenzio. In questo ventre cerca di vivere. Lavora, ha due figli, si sposa due volte, assiste alla sua vita, quasi incredulo. Silvano aveva molto girato in Super8: filmini suoi, di sua figlia, di una vacanza in Grecia. Sono immagini piacevoli, Silvano era un simpaticone. Molte persone di quella generazione lì che, vivendo cose più o meno terribili di lui, non hanno mai raccontato. Forse per paura di rompere lo specchio di una vita che poteva essere felice: è ancor più sconvolgente.
Cafébabel Napoli: Hai avuto occasione di confrontati con altre persone in merito a storie simili?
Giovanni Cioni: Dopo la prima proiezione, durante il festival del Cinéma du Réel 2015 di Parigi, molte persone si sono avvicinate per raccontarmi che anche i loro genitori non avevano detto nulla. Credo fosse una generazione diversa, che abbia deciso di dimenticare e ricostruire. Vi è anche una sorta di pudore, un elemento culturale di un’epoca. Come se l’Europa non potesse accettare che fosse successo questo e che tutti si impegnassero ad “ubriacarsi” di lavoro. In Silvano c’è anche il senso di colpa per tutti quelli che sono morti: coloro che sono deceduti mentre venivano deportati dalla Grecia, un soldato russo che i Kapò gli hanno costretto a giustiziare. È la colpa dell’essere vivo perché altri sono morti al posto suo.
BA Dal Ritorno di Giovanni Cioni from ZeugmaFilms on Vimeo.
Cafébabel Napoli: Silvano è mai tornato a Mauthausen?
Giovanni Cioni: È interessante ricordare che sì, lui è tornato a Mauthausen ma ha filmato solo il viaggio e non il campo. Successivamente ho fatto il viaggio a Mauthausen senza di lui, ma per lui. Quando capii che per lui non sarebbe stato possibile andarci, ho deciso di filmare il momento in cui gli ho detto che sarei andato da solo e gli ho chiesto di dirmi quali luoghi cogliere perché ci andavo per lui. Purtroppo, al mio ritorno da Mauthausen, Silvano ha avuto un secondo attacco ed è deceduto. Dunque ho fatto un film che è una lettera rivolta ad una persona che questo film non l’hai visto. È chiaro che io abbia montato il film dopo il ritorno da Mauthausen e dopo la morte di Silvano, tenendo come bussola l’idea iniziale di voler rivolgergli questo film dove il ritorno è il ritorno dai campi, da Firenze, il mio tornare «laggiù» o il mio ritorno da «laggiù», fino alla sua definitiva partenza. È una consustanzialità che mi ricorda Paul Celan, il poeta: «nessuno si è portato il testimone». Il titolo è quasi più una domanda: dal ritorno? Da quale ritorno?