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Da Genova ad Atene, la lunga marcia contro la globalizzazione

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La strada tracciata a Genova era quella giusta e gli echi di quel grande movimento risuonano oggi, più forti che mai. Sono negli slogan dei giovani Indignados spagnoli che reclamano lavoro e rispetto e negli scioperi generali di Atene e Lisbona, dove i lavoratori non accettano di pagare un debito caricato da altri sulle loro spalle.

Il ricordo di chi c'era, 10 anni fa, e la consapevolezza di non avere avuto torto: lo dimostra la crisi economica che ha colpito l'Occidente.

Un’immensa e cupa nube si staglia sopra il porto. L’incessante frastuono degli elicotteri, che sorvolano la folla a bassa quota, è una presenza costante. I minacciosi rotori seguono passo passo il serpentone formato dagli oltre 250.000 manifestanti. Il caldo torrido dell’estate s’impasta con l’odore acre dei lacrimogeni e rende ruvida l’aria dentro la gola. Le camionette blu sfrecciano nervosissime per le ripide strade della città vecchia. Se penso a Genova, al G8, sono queste le prime, vivide immagini che riaffiorano alla mia memoria. Nonostante i miei 18 anni appena compiuti, nonostante la dura opposizione dei miei genitori alla mia ferma volontà di partecipare alla manifestazione, rimane la profonda consapevolezza di aver fatto la scelta giusta.

Genova, 21 luglio 2001Ma piuttosto che lasciarmi andare ai ricordi, piuttosto che ricordare la durezza degli scontri, il clima di violenza di cui si era oramai macchiato tutto l’evento, preferisco ricordare la varietà di volti e delle esperienze che in quella torrida giornata estiva si sono ritrovate unite per denunciare un modello economico e politico sbagliato. Preferisco ricordare le parole di No Logo, dove la giornalista e attivista canadese, Naomi Klein, denuncia l’aggressività nelle campagne di marketing delle multinazionali e le conseguenze sociali della delocalizzazione. Preferisco ricordare di aver fatto parte di un movimento che troppo in fretta e in modo troppo semplicistico è stato definito dai media “No Global”. Giovani dei centri sociali, ex sessantottini, ambientalisti, ma anche boy scout e movimenti religiosi, contadini sudamericani e giovani europei, tutti concordi nel dire che il modello neo-liberale imposto dagli Usa e scelto dall’Unione Europea aveva partorito una globalizzazione malsana.

Tutto questo era nella nostra agenda

Solo oggi, a dieci anni da quei giorni, dopo le infauste scelte dell’era Bush, dopo che il G8 è stato costretto a diventare G20, dopo tre anni di crisi economica conclamata e la Grecia sull’orlo del default finanziario si può dire che avevamo ragione noi. I rischi di un mercato svincolato da ogni regola, la condanna della speculazione finanziaria a tutti costi, la minaccia di un dissesto sociale dovuto alla delocalizzazione del lavoro sono oggi i temi caldi di tutti i guru dell’economia mondiale. Tutto questo però era già nell’agenda del movimento che prese il via durante la contestazione del vertice di Seattle del WTO nel 1999, a cui seguirono, con lo stesso copione, i meeting di Goteborg e Praga. Genova, il suo G8, furono solo il tragico apice conclusosi con la morte di Carlo Guliani e con gli abusi della polizia italiana.

Da quel momento il percorso del movimento dei movimenti, forse per cause sue interne, forse per l’immagine di violenza a cui era stato inevitabilmente associato, piano piano, si inabissò come un fiume carsico, per riemergere solo più sporadicamente in occasione delle contestazioni alle guerre di Bush. Poca cosa, quasi fosse un’ombra di ciò che era stato, rispetto al periodo 1999-2003, quello della contestazione dura, ma anche del forum di Porto Alegre, delle blindatissime zone rosse, ma anche delle marce pacifiche per le piazze delle capitali europee.

Atene, 8 luglio 2011

Dai Pigs al Nord-Africa, il movimento è riemerso

La strada però era quella giusta e gli echi di quel grande movimento risuonano oggi, più forti che mai. Sono negli slogan dei giovani Indignados spagnoli che reclamano lavoro e rispetto e negli scioperi generali di Atene e Lisbona, dove i lavoratori non accettano di pagare un debito caricato da altri sulle loro spalle. Ma non solo. Sono oggi molti gli intellettuali e gli economisti che denunciano gli squilibri ambientali generati da un modello di sviluppo economico energivoro e concentrato sul concetto di una crescita eterna dei consumi in un mondo di risorse finite. La conquista più grande è forse però quella che ha visto finalmente esportare la contestazione al di fuori dei paesi ricchi dell’Occidente, dov’era nato, per diffondersi nei paesi in via di sviluppo del Nord Africa dando vita a quella che sarà ricordata nei libri di storia come la grande Primavera araba.

Foto: home-page © Bénédicte Salzes, testo: Genova (cc) orianomada/flickr, Atene © Bénédicte Salzes