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Curry Vavart, se l'occupazione è un preludio all'arte

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Cultura

Il collettivo Curry Vavart, attivo a Parigi dal 2004, trasforma edifici abbandonati e dimenticati dalla città in palcoscenici, atelier, cucine collettive e orti condivisi, vagando per la capitale francese alla ricerca di nuovi spazi. Cronaca di un pomeriggio in compagnia di Vincent, responsabile del collettivo, tra i binari di Gare de l'Est e una vecchia carrozzeria del 20simo distretto. 

L’unica condizione è che ci sia almeno un ex ferroviere tra i membri del nostro collettivo”, così esordisce Vincent Prieur, 30 anni, artista, fotografo e professore di arti plastiche qui a Parigi, membro del collettivo Curry Vavart, nato nel 2004, che dallo scorso anno occupa i due edifici al civico 72 di rue de Riquet, di fronte ai binari della Gare de l’Est a Parigi.

Abbiamo un accordo orale con la SNCF (la compagnia ferroviaria francese, ndr)”, spiega Vincent, occhi semi-chiusi dal sole di luglio, “che ci ha concesso un ex spogliatoio, di circa 800 metri quadri, e un centro di formazione, di 600”, entrambi circondati da un giardino costellato di biciclette e incorniciato dai binari della stazione. In altri termini, lo Shakirail.

Tra gli atelier degli artigiani

Una volta richiuso il cancello e varcata la soglia, è sufficiente scegliere tra la porta a destra o quella a sinistra per ritrovarsi in un fantasmagorico atelier delle meraviglie: l’odore del legno si mescola a quello della colla, le sfumature delle tinture si riversano nel bianco del gesso e nei riflessi del vetro. Sono i laboratori degli artigiani e dei plastici: qui tutti hanno il proprio angolo di lavoro, dai costumisti ai falegnami, dagli scenografi ai realizzatori di effetti speciali.

Griet De Vis, 35 anni, accessorista per il teatro, vi trascorre spesso i suoi pomeriggi. “Se sei all’inizio della tua carriera, questo è il posto ideale”, racconta, “puoi confrontarti con il tuo vicino, imparare nuove cose, io per esempio mi sono data ai costumi e sto imparando un po’ di sartoria”. L’età media degli artigiani dello Shakirail è dai 24 ai 36 anni. “Si arriva per mancanza di spazio”, mi spiegano, “poi si resta per la convivialità, per la solidarietà e i tanti nuovi amici”.

Al piano di sopra, la sala prove riservata alle compagnie, con il parquet per i danzatori, contiene i vecchi armadietti degli operai delle ferrovie, qualcuno ha ancora il nome sopra, e le sedie sgualcite, arredamento forse di quella che era una sala d’aspetto. Di fronte la sala prove, si aprono gli uffici, una sorta di salotto incorniciato da pile di libri, cd e giornali e riempito di poltrone e sofà. Contando su un network di circa 90 volontari, i ragazzi del collettivo ospitano circa 80 compagnie all'anno, realizzando un centinaio di spettacoli. Sul lato opposto, invece, il laboratorio di fotografia, dove è possibile, previa una modica somma da versare, utilizzare l’attrezzatura e la camera oscura per sviluppare le proprie foto o usufruire delle lezioni dei due responsabili, membri del collettivo.

pentole, biciclette e orti condivisi

Per arrivare al secondo edificio, si passa accanto al vecchio orto del collettivo, “purtroppo non se ne occupa più nessuno”, racconta Vincent, ricordando divertito di come i passeggeri s’inquietassero alla vista di una dozzina di matti che coltivavano ortaggi a un passo dai binari della stazione. Qui risiede il cuore della vita in comune dello squat: la cucina. “Questo è forse uno dei lavandini più grandi in tutta la città di Parigi”, scherza Vincent, spiegando come sia stato ricavato da una vecchia doccia degli operai delle ferrovie. Al piano inferiore, si entra nel regno di Yann, eccentrico biciclettaio, con ai piedi un paio di vecchi stivali da ferroviere. Divide il suo atelier con Camille, “che non viene mai”, e con un centinaio di bici di tutti i tipi, stravolte, reinventate e rimescolate con materiali di scarto e oggetti riciclati.

Lo Shakirail non è il primo edificio occupato dal collettivo, che ha anche l’ampio spazio del Marchal, nel 20simo arrondissement, un’antica carrozzeria oggi rimessa a nuovo dai ragazzi di Curry-Vavart, 500 metri quadri concessi dal Comune di Parigi, per i quali i circa 30 artisti e artigiani che vi lavorano pagano in tutto solo 250 euro di affitto. “Tutto è iniziato nel 2004, in quello che era il Théâtre de Verre”, racconta Vincent. Poi la storia è continuata con Le Gros Belec, Le Boeuf3, Le Meubles, e gli altri edifici, occupati e poi sgomberati nel giro di qualche mese. “Questo nomadismo non ci ha mai scoraggiato”, scherza Vincent, “è come una sfida che abbiamo accettato e ci ha stimolato ogni volta, consapevoli di avere poco tempo a disposizione, a sfruttare tutte le potenzialità di ogni luogo”.

nuove modalità di vita in comune

Il collettivo, nato anni or sono, necessita formalmente di una struttura verticale, ma, in realtà, non esistono gerarchie e vige una completa e solidale democrazia. “Ogni settimana abbiamo una riunione”, spiega Vincent, “dove insieme prendiamo decisioni riguardo alla gestione degli spazi”. Un’organizzazione che sembra funzionare bene, visto che il collettivo riesce ad autofinanziare tutte le sue numerose attività: “ogni residente regolare partecipa alle spese con una quota stabilita in base alle sue possibilità e all’utilizzo degli spazi”, continua, “ogni artista ospite contribuisce con una quota volontaria e le serate organizzate del collettivo ci aiutano ad arrivare a una somma che sfiora i 30.000 euro all’anno”.

All'inteno degli edifici, si conservano riserve di legno, metallo, vetro, strumenti musicali. "Tutti portano qui quello che riescono a recuperare", spiega Vincent, "c'è chi lavora nelle gallerie, nei musei e riporta qui il materiale inutilizzato per le esposizioni o le mostre, mettndolo a disposizione di tutti". E negli atelier, ogni attrezzatura è condivisa e chi ha dimenticato un utensile a casa è certo di trovarlo nell'angolo del suo vicino. 

Ci conosciamo tutti in questo ambiente”, risponde Vincent riguardo ai loro rapporti con il collettivo Jeudi Noir, “ma la nostra riflessione è di tipo diverso”. Il collettivo Curry Vavart non insiste sul concetto di occupazione, ma piuttosto su quello di condivisione, “vogliamo mettere in pratica nuove possibilità di partecipazione, maniere inedite di vivificare spazi così grandi, abbandonati per tanto tempo e fare della condivisione una filosofia di vita”, conclude Vincent, rivelandomi che hanno già in programma di prendere in gestione un ulteriore edificio per questo autunno, "poter contare su uno spazio, diverso dalla propria abitazione, in edifici del genere aiuta l'ispirazione". E nella città degli appartamenti di 11 metri quadri, avere anche un solo angolo in un atelier che ne conta 800 apre non pochi orizzonti.