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«Cosa vuoi fare da grande, l'artigiano o la guardia del corpo di Bin Laden?»

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Default profile picture Alba Fortini

I protagonisti di due documentari, uno israeliano e l’altro arabo, scuotono la sessantesima edizione della Berlinale. Panorama.

La sessantesima Berlinale è il luogo dove il cinema può essere ancora cinema. Il festival internazionale di Berlino presenta anche quest’anno persone, paesaggi e culture che non si potrebbero mai conoscere dal vivo: l’ex guardia del corpo di Osama Bin Laden, due donne scappate dalla comunità chassidica ultra ortodossa di Gerusalemme, persone che cercano di condurre una vita normale nella zona distrutta della striscia di Gaza, una coppietta di omosessuali tedesco-isreaeliani. Nonostante i film abbiano alcuni punti deboli formali, sono i protagonisti forti e le loro storie a prevalere.

The Oath: «Che cosa vuoi fare da grande, lo jihadista o l’artigiano?»

Questa è la domanda posta da Abu Jandal, l’ex guardia del corpo di Osama Bin Laden, a suo figlio di cinque anni. Ovviamente il bambino dai grandi occhi marroni vuole diventare come suo padre. «Un film sotto il radar», la documentarista americana Laura Poitras chiama così la sua ultima produzione The Oath, che per poco ha rischiato di non presentare di persona alla Berlinale: la newyorkese era, infatti, sulla No-Fly-List perché i suoi viaggi ripetuti nello Yemen ed in Arabia Saudita erano diventati sospetti alle autorità. Laura Poitras ha raccolto interviste, rappresentazioni grafiche di processi, interviste televisive, scene di documentari dallo Yemen e da Guantanamo e addirittura una registrazione video di Osama Bin Laden per costruire un ritratto contraddittorio di Abu Jandal, che ha rotto la sua promessa di fedeltà verso lo “sceicco” ed ora lotta contro l’insonnia, la mancanza di prospettive e le paure dei propri errori. Nonostante il programma per drop out, le scuse alle vittime e le parole di pentimento non si vuole credere del tutto all’uomo dal viso rotondo. La sua inclinazione alla rappresentazione di sé nei media americani ed europei, le sue dichiarazioni contraddittorie e le ammissioni aperte delle sue capacità manipolative lasciano intravvedere con quali mezzi lavorava.

Soreret/Black Bus

Dei drop out parla anche il documentario Soreret/Black Bus di Anat Yuta Zuria. Le giovani donne Shulamit e Sarah si sono allontanate dalla comunità chassidica ultra ortodossa di Gerusalemme e dalle rispettive famiglie per vivere la propria vita l’una da fotografa e l’altra da blogger. Le due protagoniste non volevano più sopportare il matrimonio precoce, la discriminazione e gli autobus diversi in base al sesso, ma poter sfogare la propria voglia di vivere, come ogni donna laica in Israele. La rabbia, l’offesa e la tristezza sono presenti in molti primi piani delle giovani donne, ancora in vita. L’intensità delle immagini purtroppo viene rotta quando le due donne raccontano, piuttosto controvoglia, dei propri tentativi di suicidio e scendono le prime lacrime. La telecamera non viene spenta e la regista ridicolizza le protagoniste.

I shot my love

Il regista israeliano Tomer Heyman non ha questo problema: è innamorato e vuole far vedere al mondo il proprio documentario I shot my love. L’oggetto del suo desiderio, il ballerino tedesco Andreas Merk, viene seguito passo passo dalla camera a mano. Il regista stesso afferma: «Filmo quanto mi sta attorno in modo continuo e ossessivo». Nelle immagini traballanti vediamo Andreas che pulisce in mutande, Andreas che prepara un pancake in cucina, Andreas che balla in spiaggia. A questo si aggiungono commenti a volte superficiali e a volte profondi in un cattivo inglese. L’innamorato, invece, si nasconde dietro la telecamera e riprende l’altra persona più importante della propria vita: sua madre. Alla fine del film Andreas gli consiglia di usare le riprese per i suoi scopi privati e non per il cinema. Avrebbe dovuto seguire il consiglio.

Aisheen – Still alive in Gaza

Quando si dice Gaza si rievocano immagini mediatiche conosciute da tutti: le persone che si coprono la faccia con dei fazzoletti e lanciano delle pietre, le bandiere verdi di Hamas, le case in fiamme e le ambulanze ululanti che trasportano persone in fin di vita. Al documentarista svizzero Nicolas Wadimoff non interessano queste immagini, ma vuole dipingere il vuoto geografico e mentale che si è creato per gli abitanti locali dopo l’ultima guerra a Gaza. Aisheen – Still alive in Gaza mostra i coccodrilli e i leoni impagliati allo zoo, perché gli animali sono morti di fame o durante un attacco; un motivatissimo gruppo rap sulla via del successo, ma che non può incidere un album perché non c’è la corrente elettrica; due giovani che, in spiaggia, mangiano con gusto l’unico pesce che sono riusciti a prendere nella zona in cui è permessa la pesca; infine i bambini che aspettano che il luna park ricominci finalmente a funzionare. Si nota che sono soprattutto i giovani e i bambini a soffrire del fatto di non avere istruzione, speranze e prospettive. «Abbiamo anche smesso di sognare», dicono. Nicolas Wadimoff non introduce commenti fuori campo, non intercala spiegazioni, non si lega a nessun protagonista e mostra, nelle immagini ferme e calme, una regione assurdamente distrutta che per la gente è diventata una prigione a cielo aperto.

Budrus

La zona israeliana e quella palestinese sono davvero due mondi separati? In Budrus di Julia Bacha vengono finalmente intervistate entrambe le parti riguardo alla costruzione del muro all’interno della zona palestinese: i soldati israeliani e le persone che hanno perso i propri ulivi. Alla protesta non violenta del paese di Budrus contro Ayed Morrar partecipano anche i militanti pacifisti israeliani, il tracciato del muro viene modificato. Speranza e democrazia in un conflitto arbitrario.

Foto da Berlinale.de

Translated from Bin Ladens Bodyguard zur Berlinale 2010