Claudio Magris, «Quando l’Europa sarà uno Stato»
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Danubio lo ha scritto in un caffè. E in un caffè abbiamo incontrato lo scrittore triestino, pluri-tradotto e traduttore, intellettuale europeo a tutto tondo. E interprete della Mittel Europa moderna.
Ore nove e trenta. Parigi inizia a svegliarsi con pigrizia. E le macchine a sfrecciare sul Boulevard Beaumarchais. Nei pressi della Bastiglia ci sediamo per un caffè con Claudio Magris. Sessantasette anni e un impeccabile impermeabile grigio, occhi azzurri come il mare delle sua città, Trieste.
Le eleganti rughe del volto, vagamente beckettiano, ricordano le mille strade che ha percorso nella sua vita, durante i lunghi viaggi fatti nel nostro continente. La celebre firma del Corriere della sera iniziò la sua carriera con la pubblicazione di una tesi su Il mito asburgico nella letteratura tedesca (Einaudi, 1963) che contribuì a riportare in auge la cultura e la letteratura mitteleuropee.
«Mi sento europeo ma...»
«Mi sento europeo, ma con l’Europa succede quello che Sant’Agostino affermava del tempo Quando non mi domandano cos’è, so cos’è. Quando me lo domandano, non lo so più». Oggi i Paesi europei condividono gli stessi problemi e tendenze: la moneta, la disoccupazione, le mode e la cultura. In questo senso Magris non vede l’ora che «l’Europa sia uno Stato, forse uno stato federale, ma con un Parlamento vero». Ed è necessario che questo si verifichi al più presto perché l’Europa, al contrario di grandi civilità orientali o americane, mantiene «un peculiare rapporto tra l’individuo e il tutto: una società in cui l’accento è stato sempre posto sull’individuo, ma non in maniera selvaggiamente anarchica». L’Europa vive di un’eredità culturale, storica, sociale e letteraria che porta le persone ad «un egoismo progressivo, in cui l’io coinvolge anche la comunità».
La sindrome della Dieta polacca
Lo scrittore triestino parla rapido, senza interruzioni. Come un fiume in piena.
Un po’ come il suo Danubio, libro del 1986 nel quale ci racconta l’Europa “del mezzo”. Un diario sentimentale scritto tra Vienna, Bratislava, Budapest e Belgrado, spingendosi fino alla Dacia, per farci conoscere l’Europa orientale, i suoi protagonisti e le sue storie.
Ed è così che Magris, con grande lucidità, mette a fuoco i pericoli e gli ostacoli del progetto europeo: «È necessaria una maggiore coesione. Attualmente l’Europa rischia di diventare quello che era la Dieta polacca, in cui ogni nobile aveva diritto di veto. Finchè l’Europa prenderà le decisioni fondamentali all’unanimità rimarrà impotente» perché vittima di veti incrociati. Ed è proprio per questa ragione che Magris è convinto che sarebbe stato meglio trovare un accordo sulla Costituzione tra pochi Stati, per poi permettere un allargamento in un secondo tempo, «evitando così il pericolo di un Sacro Romano Impero dove l’autorità centrale rimanga molto debole». Con lo sguardo un po’ preoccupato Magris riflette su come l’Est europeo stia inventandosi una nuova identità, libera dalle sue tradizioni e dal comunismo, rischiando purtroppo di diventare «un cinquantunesimo stato degli Stati Uniti». Poi prosegue: «Questo è un rischio anche del progetto europeo».
Magris al caffè: «A casa non è possible lavorare»
E mentre Magris termina il primo croissant, tento di portare la conversazione sulla sua amata città natale. «Non ne posso più di parlare di Trieste!», risponde. Il profondo legame che lo lega alla sua città sta infatti rischiando di risultare stereotipante, fino al grottesco: «Una volta un uomo politico mi ha addirittura chiesto di farmi trovare seduto al tavolo di un caffé in occasione di una visita di una delegazione straniera importante!» mi confessa Magris. Ma questo è un rischio della società mediatica in cui viviamo e lo scrittore è deciso a continuare ad amare la sua città nella sua dimensione intima, frequentarne i caffè e scrivere seduto ai tavolini. «A casa non è possible lavorare, mi distraggo. Al caffé sono solo ma in compagnia. Vivo una sorta di anonimato ma circondato dagli altri. E questo fa bene perchè mi fa mantenere un contatto con la realtà».
«Quando quel traduttore olandese mi chiese “cosa intende per incertezza della sera?”...»
Ma il contatto con l’altro, con la molteplicità delle identità Magris lo ritrova anche nella traduzione. E sorseggiando il caffè mi racconta: «Nel manuale di tedesco dell’università c’era scritto “tradurre è impossibile ma necessario”. Un po’ come la vita». Lo scrittore triestino non esita a sottolineare l’importanza del traduttore definendolo «coautore del testo». In fondo basta pensare alla traduzione italiana di Omero di Vincenzo Monti che, ricorda, «è arrivata a influenzare il linguaggio letterario». E quando Magris parla di traduzione è perché nella sua carriera è stato sia traduttore dei più importanti testi teatrali della tradizione germanica – Büchner, Kleist, Schnitzler – sia autore tradotto in venticinque paesi. Ed è da questa duplice sensibilità che nasce il bisogno di un contatto profondo con i suoi traduttori: «Ho una vera e propria corrispondenza! Una volta il mio traduttore olandese mi ha chiesto: “cosa intende per incertezza della sera?”» – mi racconta divertito – «Beh, io ho risposto con due pagine!».