Participate Translate Blank profile picture
Image for Ciprì senza Maresco (senza Palermo e senza limiti)

Ciprì senza Maresco (senza Palermo e senza limiti)

Published on

CulturaPalermo

Dopo la separazione da Maresco non pochi fans avevano pianto la fine di un momento unico del cinema italiano. Tuttavia Daniele Ciprì sembra essere passato a una seconda vita come il suo Totò (che visse due volte) e ci ha raccontato il tragitto che da Cinico Tv lo ha portato al suo ultimo, visionario progetto.

cafébabel: Tutto è iniziato con Cinico Tv: com’è nato il percorso che l’ha portata sul grande schermo?

Daniele Ciprì: Tutto è nato dall’artigianato, io facevo il fotografo, facevo riprese. A Palermo non c’era un riferimento cinematografico produttivo, ma la mia intraprendenza mi ha spinto a fare cose parallele. Mentre facevo il fotografo di matrimoni, infatti, ho cominciato a fare documentari con la cooperativa CLCT di Giuseppe Tornatore.

Poi è avvenuto l’incontro con Franco Maresco, quasi per caso. All’inizio facevamo dei piccoli montaggi, da John Ford a Kubrik, cominciavamo ad analizzare il cinema. Cos¡ è nata la prima sperimentazione, prendevamo dei personaggi, parlando del territorio siciliano ma non mostrandoli mai come delle cartoline, rendendoli sempre umani. La formula televisiva è stata lanciata dalla televisione locale TVM di Anna Mango, la mia ex moglie. Quello che facevamo era essenzialmente proporre delle schegge televisive in diretta. Poi abbiamo iniziato a fare il cinema con l’elettronica cosa che ci ha portati a poter fare la tv nazionale. Massimo Guglielmi ha scoperto la nostra originalità e ha deciso di appoggiarci.

cafébabel: Cosa portava il duo Ciprì e Maresco ad abbracciare quella visione unica e atemporale della Sicilia? Erano dei film rivolti più ai siciliani, agli italiani o al mondo intero?

Daniele Ciprì: La nostra era una visione globale, volevamo essere internazionali, parlare a tutti, tant’è che il “non luogo” si rappresentava come un luogo universale. L’apocalisse era nel mondo, era quasi un fantasy, con questi personaggi che avevano la madrelingua siciliana e dove le macerie erano l’indistinto. È stato un percorso lunghissimo che nessuno di noi due, anche separandoci, ha rinnegato mai.

cafébabel: Parliamo anche della sua produzione teatrale. In Palermo può attendere (2002) e Viva Palermo Viva Santa Rosalia (2005) ha collaborato con una delle voci più autentiche e radicate nel territorio palermitano: Franco Scaldati. Pensa che Palermo si presti a essere un palco teatrale?

Daniele Ciprì: Palermo è una citta meravigliosa, che mi ha dato tanto e che non ho mai rinnegato dal punto di vista artistico. Tu citi un artista che per me è stato punto di riferimento: Franco Scaldati. Lui faceva antropologia del territorio e noi  la trasformavamo in qualcosa di globale. Franco amava come lavoravamo, al punto da accettare di fare l’attore in Cagliostro. In quel momento rappresentavamo la trinacria cinematografica e lui fu complice di quella rivoluzione. Conoscevamo entrambi la sua incredibile capacità, aveva i tempi del cinema, poteva fare l’attore, l’autore ma non lo appassionava. Quando gli dicevo di fare cinema mi rispondeva sempre “Ma s’innissi a fari in to culo u cinema”.

cafébabel: La sua nuova carriera segna un cambiamento netto ad ogni livello: stile, contenuto, narrazione, regia, fotografia. Da cosa si vuole liberare e a cosa si vuole aprire il nuovo Ciprì?

Daniele Ciprì: Il cinema che io sto per fare è un cinema di “genere”. In passato ho fatto quello che desideravo, raccontando il mio territorio a mio modo. Arriva un momento però in cui devi aprirti, parlare anche con i giovani, cambiare l’aspetto narrativo, senza tradire il passato. Ho sfidato me stesso nel raccontare Palermo in un altro luogo, in un non luogo. Mi piace sperimentare e continuerò a farlo fino a quando ne avrò la possibilità. Forse Maresco si è ritirato in quel luogo del passato, ma io mi sentivo bloccato non da un tipo di messaggio, ma da un tipo di linguaggio che sinceramente ritenevo scaduto e che ho cercato di rinnovare separandomi. Franco ci ha sofferto moltissimo ed anche io, ma dovevo farlo per progredire, per salvare il passato.

cafébabel: La buca è il primo film che esce dal territorio siciliano. È l’inizio della fine del suo stretto rapporto cinematografico con Palermo?

Daniele Ciprì: Io non dimenticherò mai il mio tipo di scrittura visiva e narrativa, però è vero che “La Buca” rappresenta un passaggio, è un film che viene raccontato dichiaratamente in un luogo claustrofobico. Dicono che sia riuscito a raccontare la morte dei luoghi del cinema. È una pellicola leggera che contamina il vero e il falso, un po’ come faceva Fellini ambientando i suoi film in un non luogo che a ben vedere era quello della sua infanzia, dal quale però riusciva ad astrarsi rendendolo intangibile.

Il mio prossimo film andrà molto oltre: sto preparando un viaggio nella cecità. Il film prende spunto da un libro, ma ne trarrò solo qualche elemento. Sarà il viaggio di due ragazzi e questo mi darà la possibilità di incontrare personaggi e di capire e moralizzare la vita. Dato che da sempre faccio immagini voglio sfidarmi: immaginare di non poter vedere più e di diventare cieco. Cadere nella cecità per cominciare a vedere. Non racconterò il cieco, racconterò “noi” ciechi. È la mia nuova sfida e uscirà nel 2016.

cafébabel: Scopro, parlandole, che un artista anche dopo avere raggiunto la massima popolarità non smette mai di reinventarsi e di cercare nuovi stimoli. È forse questa la chiave per sperare in un nuovo cinema italiano?

Daniele Ciprì: Ho fatto molti di cortometraggi con i miei allievi, uno è a Cannes e un altro ha vinto ieri il Nastro d’argento. Mi confronto con loro costantemente perché non si smette mai di imparare: è una relazione quasi vampiresca, io prendo da loro e loro prendono da me. L’Italia ha bisogno di nuovi stimoli. Adesso sto vedendo il trailer del film di Garrone: l’uomo che ha realizzato Gomorra ora ha fatto un film di genere che sembra diretto da Peter Jackson. Questo tipo di passaggio che io come lui sto avendo è importantissimo ed è quello che manca in Italia. Al contrario dei francesi, noi non abbiamo un’industria del cinema. E industrializzare non significa per forza tralasciare l’umano. Come credo abbia fatto anche Garrone, il mio prossimo film è un film “fantastico” fatto per raccontare l’umanità.

Insomma, bisogna riuscire a fare cinema e stimolare l’immaginazione di chi guarda senza dimenticare mai che dietro ogni cambiamento di luce, di ombra e di ripresa, c’è sempre l’uomo.