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Chocolat e il discorso anticolonialista di un clown

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CulturaCineBabelPalermo

Annunciato come la comédie populaire dell'anno, Chocolat presenta una storia inedita ed esemplare, condita da uno spettacolo avvincente, un tragico destino e un senso di giustizia che nobilita il messaggio sociale del film. Quanta lucidità ed esattezza in questa operazione?

Mister Chocolat è un biopic sull'avanspettacolo parigino ai tempi della Belle époque coloniale, una commedia drammatica per il grande pubblico, che con accademismo hollywoodiano osa poco e genera consenso. Nel nuovo film di Roschdy Zem (l'autore di Omar m’a tuer) lo spettacolo è assicurato con due protagonisti dall'indubbia presenza scenica: Omar Sy presta corpo, voce e sorriso al clown Chocolat, il primo nero, figlio di schiavi cubani, ad essersi affermato come una star nella Francia negli anni '10. Non a caso, il ruolo è stato affidato al primo attore nero che si possa definire una star nel cinema francese contemporaneo. James Thiérrée, nipote di Charlie Chaplin, abile acrobata e attore di teatro, interpreta invece il compagno di scena Footit, la controparte "bianca" del famoso duo circense.

È il racconto di una parentesi, segnata da un'ascesa e un declino assai rapidi, che fa parte della storia recente europea ed è rimasta quasi totalmente ignorata per un secolo. L'uscita di Mister Chocolat, con tutte le sue appendici editoriali e il dibattito che si è creato attorno al film, è dunque un atto di memoria importante, almeno per risollevare alcune questioni che hanno un eco ancora oggi.

Il trailer di Mister Chocolat, dal 7 aprile nelle sale italiane.

"Je suis Chocolat"

Nessuno sa esattamente come si chiamasse in realtà Chocolat, che aveva diversi pseudonimi o nomi d'arte secondo i ruoli interpretati. Il trampolino del successo, usato per uscire dall’anonimato dei negros dell’età schiavista, è in realtà una falsa emancipazione. Chocolat non è un nome, ma uno slogan per il marketing dello spettacolo coloniale, un'immagine rappresentata sui cartelloni pubblicitari col volto di una scimmia, un'identità non risolta che resta cucita sulla pelle nera.

Il successivo tentativo di intraprendere una nuova carriera d'attore drammatico corrisponde all'adozione di un nome diverso e personale, Rafael Padilla, legato allo sforzo di porre fine all'identità "negra", pubblica e pubblicitaria. Tuttavia, l'insuccesso inaspettato lo porta ad una regressione identitaria, facendo affermare al protagonista, con fierezza malinconica ed in ultima istanza: «Je suis Chocolat». Il regista, con questa lettura fatalista, imprigiona Chocolat nel suo involucro di clown, dipendente dal duo con Footit: l'esistenza dell'uomo di spettacolo si riduce alla parentesi della sua esistenza pubblica, la sua dignità e il suo orgoglio coincidono con l'unico momento di celebrità acquisito.

D'altronde la coppia di clown costruisce fin dall'inizio un rapporto di forza e potere ben definito. Footit, il bianco, è un clown esperto e apprezzato – serio, ambizioso, pragmatico, stacanovista, autoritario, indipendente, creativo, – che strappa dal fango di una compagnia nomade il "gorilla cannibale" del gruppo: un grande uomo nero che serve a spaventare i bambini. Zem presenta allora Chocolat come un dongiovanni pigro e buontempone, dedito al gioco e ai piaceri, senza ambizione e senza metodo, che si fa salvare dal mentore occidentale, trasformato per magia in un clown di successo amato dalle ricche europee e applaudito da tutti al Grand Cirque di Parigi. In realtà questa dipendenza, che peraltro riflette gli schemi coloniali e identifica Chocolat come un corpo altro da sfruttare per il suo esotismo, non è storicamente attestata, poiché che nella realtà il percorso di Chocolat si smarcò spesso da quello di Footit.

Chocolat, pioniere dell'antirazzismo

La vena edificante del film emerge appena Chocolat, grazie all'ispirazione politica di un vecchio haitiano incarcerato, si rende conto della sua sottomissione passiva al sistema gerarchico, che dietro una risata lo costringe a prendere calci nel sedere, ogni sera, da un clown bianco: si fa bandiera ante litteram della "negritudine" (dov'erano gli altri neri che già allora stavano a Parigi?). L'improvviso risveglio di coscienza lo conduce a rivendicare la sua indipendenza, il suo talento e a sovvertire in questo modo il rapporto di forza, finendo per schiaffeggiare lui stesso Footit e provocando le risate del pubblico: «Vedi che funziona anche al contrario?».

La nuova consapevolezza colpisce subito la dimensione iconografica – scimmia, schiavo, idiota – del suo personaggio (illustrata dalle affiche di Toulouse Lautrec). Rotto il legame professionale e amicale con Footit, il nuovo Chocolat alias Rafael Padilla, cerca nel teatro shakespeariano il rispetto dovuto, incarnando il nero Otello: «Solo io posso farlo con il giusto realismo». Peccato che il pubblico dei teatri parigini non fosse ancora pronto ad un simile realismo e l’attore nero, fischiato, subisce la violenza del suo secolo e torna a fare il subalterno nel circo di campagna in cui era stato scoperto.

Roshdy Zem integra la parabola morale nella commedia popolare. Fa di Chocolat un pioniere dell’antirazzismo a posteriori, e ne siamo tutti contenti. Eppure, a distanza di un secolo esatto da quell'epoca storica, il film non sorprende più di tanto. Conosciamo il colonialismo, brucia come una ferita, pesa come un fardello. Ma non troppo, si direbbe. La scena in cui Omar Sy, con la sua pelliccia da nuovo ricco e la sua donna occidentale, osserva un gruppo di africani seminudi, letteralmente in mostra nel villaggio ricostruito all’Exposition Coloniale, è emblematica. La distanza – economica, linguistica, culturale e sociale – tra i soggetti ingurgitati dalla società occidentale e gli individui ai margini, fa parte di un meccanismo storico di esibizione ed esclusione, sfruttamento e auto-legittimazione. La società di oggi non si allontana poi molto da questa logica: confina e condanna l'alterità, vantandosi non più degli zoo umani, ma dei centri di identificazione per immigrati.