Chi siamo? I nuovi migranti
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Secondo la fondazione Migrantes, nel 2013 sono circa 42mila gli studenti italiani iscritti in università straniere, ai quali si aggiungono 18mila Erasmus.
Sono partito cinque mesi fa dall’Italia per Parigi, con una borsa Erasmus e tanta curiosità per questa nuova esperienza. La vita parigina, i ritmi, lo studio, la vita da studente fuori sede, con i suoi pro e i suoi contro, dicono, ti apre la mente, ti fa cambiare il modo di pensare su molte cose, prima punti fermi nel tuo immaginario. Perché la stragrande maggioranza degli studenti Erasmus vuole subito ripartire, continuare gli studi fuori o comunque cercare lavoro all’estero? Sono domande che mi sono posto quando ho iniziato a pensare che l’esperienza non debba essere limitata a questo periodo, ma essere sfruttata anche dopo gli studi, magari con uno stage in Francia. Ma lasciare l’Italia, e perché? Il lavoro, indubbiamente, è un problema, ma io non ho iniziato neanche a cercarlo seriamente: perché andarsene via a prescindere, quasi come se una forma di irriconoscenza nei confronti del paese dove si è cresciuti ci spingesse a farlo?
Nel 2013 sono aumentati del 25% gli studenti partiti all’estero, oggi circa 6300. Le destinazioni europee restano tra le prime scelte con il 34% delle preferenze, seguite dagli Stati Uniti, il Canada e l’America latina. A Parigi incontro molti italiani, tutti con storie più o meno simili. Fulvio, 27 anni e da più di uno nella capitale francese, non è combattuto come me. Un anno di Economia a Créteil e subito uno stage retribuito alla General Electric per ciò che ha studiato. Nella sua scelta radicale, “ha influito la mancanza d’infrastrutture, di cultura e di lavoro tali da permettere lo sviluppo del progetto professionale di un laureato”, mi spiega. Come tutti, la sua formazione è avvenuta in Italia, anche se non nasconde parecchie riserve nei confronti del suo paese natale. “Come può un laureato italiano essere competitivo sul mercato del lavoro europeo se all’estero lo stesso laureato, della stessa età, conosce almeno due lingue oltre a quella madre e ha già tra le due e le tre esperienze di stage in azienda?”, limiti innegabili del sistema universitario nostrano. Sulla stessa linea Anna Chiara. Dopo sei mesi di Erasmus alla Sorbonne, ha conseguito una laurea in Lettere in Italia per poi ritornare a Parigi e continuare con un Master. Il problema sembra essere sempre lo stesso. “Purtroppo in Italia non c’è la possibilità di applicare in senso lavorativo la formazione ricevuta, e quindi si è quasi costretti a fuggire all’estero. L’impossibilità di potersi realizzare in questo momento storico è oggettiva, e mi fa pensare che la scelta di restare si avvicini più a un discorso di appartenenza, piuttosto che di riflessione sul proprio futuro”. Un paese capace di garantire l’istruzione a migliaia di laureati l’anno, incapace però di sfruttare il proprio potenziale umano, anche in termini di investimenti. Né Fulvio né Anna Chiara ritornerebbero “a casa”, e come loro Francesca, Fabrizio e Daniel.
Devo spostarmi di qualche centinaio di chilometri più a est, a Bruxelles, per trovare un immigrato che invece è combattuto come me. Siamo seduti in una birreria di Ixelles, nella periferia sud della capitale belga. Ho ordinato una Chimay. Con me c’è Valerio, da cinque anni lontano da Napoli, in giro per il mondo tra Spagna, Sud America, Australia e infine Belgio, diviso tra studio in zoologia e lavoro. “André, io voglio tornare, Napoli mi manca, ma con la mia laurea che faccio? Io sono quasi obbligato a rimanere qui, ma in Italia ci dobbiamo muovere, ci dobbiamo agitare noi ragazzi, non è possibile che dobbiamo essere costretti ad andarcene”. Sentendo queste parole mi viene in mente il motto degli indignados spagnoli “No Nos Vamos, Nos Echan” (Noi non ce ne andiamo, ci cacciano). Dobbiamo mobilitarci, ma come? Iniziando da dove? Mi butto con le ricerche su internet. Trovo il movimento “Io voglio restare”. Dal loro appello si legge “Perché mai dovremmo restare in Italia, se qui non è possibile vivere con dignità, dare corpo alle nostre aspirazioni, mettere in gioco le nostre competenze? Eppure noi crediamo di essere una risorsa. Se questo Paese va ricostruito, noi sappiamo di poterlo e doverlo fare”. È un movimento ancora in fase embrionale che è nato con grandi ambizioni e che fa ben sperare perché va contro il clima di rassegnazione che c’è tra la generazione dei nuovi laureati. Ma la sfida di cambiare radicalmente questo paese, oggi, sembra abbastanza utopistica. È dura ammetterlo, quasi un paradosso. Ma con i tempi che corrono le uniche certezze concrete per rincorrere le proprie aspirazioni passano sempre di più per l'incertezza della scelta estera.