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Chi difende i freelance in Italia ed Europa?

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Dal settore della cultura, al giornalismo, passando per la comunicazione e il digitale in generale: oggigiorno i freelance onnipresenti nell’economia. Eppure, sono anche i lavoratori meno tutelati che esistano. Il COVID-19 li ha colpiti duramente. Si può immaginare una battaglia sociale che vada al di là delle categorie professionali e gli ordini di appartenenza?

«Il Covid-19 ha avuto un impatto forte sui lavoratori autonomi indipendenti». Ad affermarlo è la professoressa Renata Semenza dell’Università statale di Milano, autrice di Lavoro apolide. Freelance in cerca di riconoscimento (2020, Feltrinelli) e ospite del nuovo episodio podcast di Europa Reloaded: Freelance d’Italia e d’Europa, unitevi!.

Freelance, liberi professionisti a partita IVA, self-employed, chiamateli come volete. Tanti modi per identificare una cosa sola: la quota del lavoro autonomo e, più generale, di tutta l’occupazione, che cresce più rapidamente in tutta Europa. Secondo i dati Eurostat, si tratta di oltre 20 milioni di persone in giro per il Vecchio Continente.

Ma come si spiegare il fenomeno della crescita esponenziale dei freelance in Italia e in Europa? «Sono figure professionali nate negli anni ‘80, quando, a fronte di una importante trasformazione tecnologica ed economica, sono stati esternalizzati servizi che erano originariamente incorporati nelle aziende», spiega ancora Semenza.

Qual è il mezzo paradosso? Nonostante oggigiorno siano onnipresenti nell’economia, i freelance sono anche i lavoratori meno tutelati che esistano. Tanto per fare un esempio che renda bene l’idea: con la riduzione delle sessioni lavorative presso le istituzioni europee, gli interpreti non assunti come dipendenti dall’UE - si tratta di circa mille lavoratori - si sono ritrovati praticamente senza lavoro. «Dal 26 maggio 2020, sono stati cancellati i contratti annuali concordati nel 2019», spiega Tomasz Opocensky, capo-delegazione dell’AIIC, l’International Association of Conference Interpreters. In cambio, le istituzioni hanno proposto un contributo forfait da 1.300,00 euro per eventuali incarichi da svolgere entro la fine dell’anno. Ma secondo Opocensky, che è anche membro dell’iniziativa di mobilitazione #EuAid4Interpreters, l’offerta non è «dignitosa». Sul punto la pensa così anche Alexandra Geese, ex-interprete ed oggi eurodeputata dei Verdi europei al Parlamento: «Sebbene tecnicamente, alla luce dello status da frelance di questi lavoratori, le istituzioni europee non siano nel torto, sarebbe giusto fare un'offerta decorosa». «Tra l'altro, questi interpreti pagano i contributi direttamente all'Unione europea e non hanno, quindi, alcun diritto di welfare in Belgio», sottolinea Geese.

In tutto ciò, va considerato che quella degli interpreti è, tutto sommato, una categoria che, attraverso varie associazioni di categoria - sia a livello nazionale che europeo -, riesce a difendersi meglio. Ma chi pensa, dunque, ai freelance, più in generale?

Bisogna difendere i freelance

Guardando all’Italia e allargando lo sguardo all’intera galassia del mondo freelance, negli ultimi decenni sono nate sigle sindacali e associazioni - come NIDIL-CGIL (Nuove identità di lavoro) e ACTA-l’associazione dei freelance -, che cercano di difendere questo segmento della forza lavoro.

Ci sono riusciti? Tra alti e bassi, sono sicuramente stati fatti progressi importanti. «Negli ultimi anni, ACTA si è battuta per l’istituzione di una maternità per donne freelance, ma anche per la riduzione dell’aliquota INPS», spiega Susanna Botta, vice-presidente dell’associazione. Il punto, però, è che il COVID-19 si è abbattuto su questa fascia di lavoratori, anche in assenza di uno strumento di welfare universale che possa garantire un indennizzo di disoccupazione, indipendentemente dall’adesione a un particolare ordine o categoria professionale. Nota a margine, per sottolineare l’arretratezza del Vecchio Continente su questo fronte. Se negli Stati Uniti esiste una Freelancers Union che conta 490mila membri iscritti, dall’altro lato dell’Atlantico, non appare un corrispettivo dello stesso livello. Esiste la sigla EFIP - European federation of independent professionals, ma, allo stato attuale, non ha nemmeno un sito internet raggiungibile.

Il caso del settore culturale: musica e teatro

Una delle sottocategorie degli autonomi-indipendenti più colpite dalla pandemia è quella legata al mondo della cultura. «Cultura, spettacolo, organizzazione di eventi, media, comunicazione: sono aree piene di partite Iva», precisa Semenza.
Ancora più nel dettaglio, alcuni dei profili più a rischio sono gli attori e i musicisti. Del resto, non è un caso che siano nate decine di iniziative in giro per l’Europa che cercano di riabilitare questi lavoratori agli occhi della società. In Italia sono state lanciate campagne social e veri e propri movimenti sociali, come #IoLavoroConLaMusica e #AttriciAttoriUniti. Ma si potrebbero fare decine di altri esempi in giro per l’Europa. In Slovenia, il mondo associativo della cultura - quello popolato dai freelance - ha addirittura aiutato il ministero della Cultura a definire le misure di supporto al settore. Secondo il collettivo artistico sloveno, Beton Ltd., il COVID-19 ha «creato un nuovo spirito di solidarietà e stimolato nuove battaglie sociali».

Più in generale, che fine farà la cultura?

In realtà, al di là dell’impatto del COVID-19, si tratta di battaglie volte a riabilitare, più in generale, l’intero comparto del mondo della cultura. In che senso? Non è certo un segreto che, molto spesso, i lavoratori dello spettacolo non vengano considerati tali.

Tiago Rodrigues è il frontman di 5ExBand una cover band portoghese che, durante il lockdown, ha cercato di sensibilizzare le autorità nazionali del paese rispetto alla condizione degli artisti: «Il governo ci ha dato un contributo a testa di 400,00 euro durante la crisi, tutto qua. Mentre durante l’anno guadgnamo, in media,2.500,00 euro al mese». Ma a cosa è dovuta la scarsa considerazione del mondo della cultura agli occhi della politica, emerso con tutta la sua forza durante il COVID-19?

Secondo Heidi Wiley, direttrice della European Theatre Convention (ETC), un network di 40 teatri pubblici in Europa, deve essere trovata un’intesa sulla natura fondante della cultura all’interno delle società europee: «Innanzitutto, parliamo del valore della cultura. Si tratta di un bene di lusso? Di qualcosa che è accessibile soltanto per poche persone che, magari, hanno i soldi da spendere e il tempo da dedicare a questo tipo di attività? Oppure, pensiamo che sia un bene essenziale, che abbia una rilevanza di sistema e che debba essere supportato come altri comparti?».

Ovviamente, a tutto questo va aggiunto il continuo calo di fondi pubblici. A detta di Benoit Machuel, segretario generale della FIM, la Federazione internazionale dei musicisti, «tutti i paesi europei hanno vissuto una diminuzione di risorse nel corso degli ultimi anni». Si tratta di una variabile importante, perché «in Europa, c’è sempre stata, tradizionalmente, la linea di pensiero per cui sia una responsabilità del settore pubblico finanziare la cultura». E se per alcuni la digitalizzazione potrebbe offrire uno scenario alternativo alle esibizioni con il pubblico in sala o sul parterre, Anita Debaere, direttrice di PEARLE, la federazione europea delle organizzazioni e delle aziende che si occupano di spettacoli dal vivo, sostiene che «soltanto una parte delle realtà produttive si orienterà verso soluzioni innovative».

Unire le battaglie sociali al di là delle categorie professionali, si può?

Parlando con i rappresentanti del mondo della cultura, appare comunque difficile unire le battaglie sociali dei freelance con quelle delle varie categorie professionali. Perché?

Il lavoro autonomo è spesso ancora vista come un’anomalia di sistema. Secondo alcuni, è quest’ultimo che andrebbe cambiato. Per dire: per molti anni - prima che nascesse la NIDIL -, l’approccio dei sindacati è stato principalmente quello di provare a trasformare il lavoro autonomo in “dipendente”.

Ma si tratta di uno scenario realistico? Secondo un sondaggio condotto dall’associazione francese MALT e dall’EFIP, il 70 per cento dei freelance europei sarebbero tali «per scelta». Qualora il dato fosse veramente rappresentativo della popolazione dei freelance in Europa, le strategie tradizionali di “lotta alla precarietà” risulterebbero indebolite. Secondo il collettivo sloveno Beton Ltd. citato in precedenza «ci saranno sempre lavori nel settore dello spettacolo che saranno precari, perché serve continuamento un ricambio in termini di linguaggi artistici». Ciò non vuol dire ovviamente che, per esempio, il fenomeno delle cosiddette “finte p.IVA” non sia reale (anche nel settore culturale). Più semplicemente, implica che andrebbe trovato un modo per garantire anche agli autonomi indipendenti di essere tutelati in momenti di crisi come quello del COVID-19.

Una delle battaglie attuali di ACTA è proprio legata all’istituzione «di un welfare universale», precisa Botta. Insomma, un modello di welfare in cui la tutela dei lavoratori non dipenda dall’appartenenza formale di questi ultimi a ordini e organizzazioni di categoria. Ovviamente, si tratta di un approccio che metterebbe in discussione decenni di trasformazione dello stato sociale in Italia. Eppure, alla luce della crescita del fenomeno freelance in Italia ed Europa, una discussione sull’opportunità di tale operazione appare sempre più necessaria.

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