Cafébabel Napoli incontra gli organizzatori di Alto Fest 2015
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Chi sono le menti di Alto Fest? Quali sono i principi sui quali si fonda l'organizzazione di un evento così altamente stratificato e di portata internazionale? Che relazione intercorre tra artisti, donatori di spazio, donatori di ospitalità e spettatori? Cafébabel Napoli ha incontrato il team dell'organizzazione, aprendo una parentesi di riflessione sul significato di 'lavoro culturale' oggi.
È una sera di inizio luglio, l'aria è afosa, grondante di aspettative. Computer accesi, cellulari a portata di mano, locandine appena "sfornate", ospiti che vanno e vengono, collegamenti skype con paesi lontani e così via. A pochissimi giorni dall'inizio del festival, il team di Alto Fest è nel pieno del vortice organizzativo. Nella sede di via Mezzocannone 19, a pochi passi dal centro storico napoletano e dal Corso Umberto, il confine tra vita quotidiana e creazione artistica si fa sempre più sottile; raccontare con occhi esterni che cosa significhi l'esperienza del festival diventa un lavoro pressochè impossibile. Cafébabel Napoli cerca di farlo, lasciando parlare direttamente Anna, Giovanni, Marzia, Alessia e Rosaria, le colonne portanti che permettono ad Alto Fest di giungere alla sua quinta edizione, in programma dall'8 al 12 luglio 2015.
Cafébabel Napoli:Sapreste racchiudere in poche parole la vostra esperienza di Alto Fest?
Anna: Credo che il sottotitolo di Alto Fest sia sintesi dell’intera esperienza: "Dare luogo a una rigenerazione urbana/umana". È il sottotitolo che lo affianca sin dalla sua nascita nel 2011 e che vuole enfatizzare la differenza tra un evento temporaneo e l'innesto di un processo prolungato nel tempo: Alto Fest non si esaurisce in un'unica settimana di programmazione, ma, proprio per il suo obbiettivo di riqualifica urbana e umana, lascia una scia a lungo termine.
Giovanni: Alto Fest è una trappola che scardina l’impianto formale dell’opera d’arte per obbligarla a diventare una verticale sul quotidiano.
Marzia: È una bellissima babele di linguaggi artistici, di sguardi, di lingue e culture, di umanità che si incrociano, si mescolano, si rinnovano e si contaminano ogni anno.
Alessia: È un’esperienza impossibile da raccontare, bisogna viverla!
Rosaria: È costituito da ritmi che non appartengono alla quotidianità.
Cafébabel Napoli: Come riuscite a organizzare l’evento?
Anna: Il tag #itsamiracle della scorsa edizione si riferisce proprio a questo. È difficile credere che un evento così sfaccettato e complesso in termini di linguaggi artistici e relazioni sociali coinvolte sia totalmente indipendente. Pensiamo fortemente che sia un esempio di investimento di capitale alternativo: umano e temporale, quantificabile nel numero di persone che coinvolge e nel tempo che ciascuna di esse impiega per renderlo possibile. Innesca una riflessione su cosa significhi lavorare nel campo culturale oggi, su come il capitale monetario si sia trasformato in umano e temporale.
Cafébabel Napoli: Che cosa intendete per "lavoro" nel campo culturale?
Anna: Alto Fest agisce su un aspetto che molti artisti rifiutano in questo momento. In Italia, l'arte vive un lacerazione interna, dovuta alla separazione della creazione artistica dal mondo dell'organizzazione e della progettualità. Alto fest insiste sul contatto tra questi due mondi apparentementi estranei e invece complementari l'uno all'altro. Proprio per questo, anche il ruolo rivestisto da ciascuno di noi all'interno dell'organizzazione non è statico e predeterminato. Fondandoci sul principio del "luogo", preferiamo pensare che non occupiamo ruoli, bensì posizioni, definite dalle competenze che possiamo donare a monte e dalle relazioni sociali che incrociamo: colui che viaggia da un luogo all'altro della città stringendo relazioni con i donatori di spazio è il responsabile dei donatori, colui che parla fluentemente le lingue straniere è il responsabile delle relazioni esterne e così via.
Giovanni: È un po' come a teatro: al centro della scena si trova l'attore, alle spalle si intravede il tecnico, mentre il pubblico è l’organo che osserva. Queste posizioni creano una drammaturgia, sintesi di questo dialogo. A livello organizzativo si replica questa drammaturgia, sulla base della posizione che ognuno di noi occupa rispetto all'altro in termini di prossimità spaziale.
Cafébabel Napoli: Un esempio di relazione emblematica nata durante le scorse edizioni?
Anna: Tantissime. Questo ci fa comprendere che il festival funziona. Un esempio: l’intera popolazione di via Pedamentina ha acquisito un sincero senso di appartenenza ad Alto Fest.
Giovanni: Alto Fest rafforza il senso identitario attraverso una serie di linguaggi e azioni contemporanee. Vi sono varie modalità di interazione con il festival: si può essere spettatore, ospitare un artista, aprire la casa al pubblico o diventare un esercizio convenzionato. È un dispositivo complesso nella sua forma proprio perchè consente a tutti di partecipare.
Alessia: Alto Fest agisce sul modo di concepire l'identità, trasformandola da concetto statico, sinonimo di difesa, in libertà di movimento, in cammino di sperimentazione e scoperta.
Ci sono artisti che hanno stretto una relazione con Napoli proprio a partire dal festival. Prima del 2011, Claudia Fabris, un'artista storica del festival, non conosceva la città; da quel momento in poi Napoli è diventata la sua seconda casa e ora fa parte del panorama partenopeo a tutti gli effetti. Si è creato un senso di condivisione, una quarta dimensione nella città, che non si concentra in una sola settimana di programmazione ma si amplifica nel tempo.
Cafébabel Napoli: È Napoli che lo permette come città?
Anna: Sandra Bozic di Belgrado, Melissa Cisneros e Marina Quesada, fondatrici della piattaforma teatrale argentina “Lodo”, sono artiste che partecipano ad Alto Fest anche con l'intenzione di proporlo nei loro paesi di origine. Alto Fest nasce con l’idea di andare ovunque, non tanto per spostarsi, quanto per allargare sempre di più i confini. Sicuramente Napoli è l’epicentro, il punto di partenza del riverbero. Tuttavia, la forma di Alto Fest dipende dal luogo nel quale si innesta, infatti, non si tratta di un "contenitore" predeterminato come può esserlo la struttura di un format.
Giovanni: Penso che Alto Fest avesse bisogno di una città come Napoli per nascere. Il festival crea uno spazio di promiscuità che scardina l’impianto formale dell’artista e del cittadino: c'è un paradigma che si trasferisce dall’artista al donatore e allo spettatore e, una volta che lo incorpori, lo porti con te ovunque. La promiscuità non è solo fisica, ma si fa spazio all'interno delle persone: il concetto di dare luogo si ribalta, è la persona a diventare il luogo. Perché proprio a Napoli? Perché la città contiene questo spazio di promiscuità già al proprio interno: la "vrenzola" che esce in strada non sente di essere in un luogo estraneo, ma in una continuazione della sua dimora, nella soluzione di continuità che separa casa sua da un’altra casa. In quello spazio di promiscuità troneggia in un abito discinto o casalingo, in un’affermazione di identità e di proprietà di quel luogo: non si presenta vestita in maniera elegante o formale, ma in modo da poter dire questa è casa mia. Dove iniziare questo percorso se non a Napoli?