Bulgakov e Maradona
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di Mario Paciolla “Bulgakov e Maradona” è uno dei sei racconti pubblicati da il Levante in collaborazione con la fotografa Ilaria Izzo e Maria Seredenko dell'Associazione Hemispheres in occasione della Campagna per i diritti di cittadinanza “L’Italia sono anch’io”.
La Campagna per i diritti di cittadinanza ai giovani italiani di seconda generazione si è conclusa il 6 marzo 2012 raccogliendo 110.000 firme, ben oltre le 50.000 previste per presentare i due progetti di legge in Parlamento.
Comincia a raccontarmi della sua infanzia, quando, nelle gelide sere moscovite, prima di andare a letto lei e le sue sorelline si raggomitolavano intorno al televisore per una nuova puntata di Masyanya, la protagonista di un vecchio cartone animato russo. Uno dei suoi episodi preferiti si chiamava “Il mare” e narrava l’avventura di un breve viaggio in solitaria da Mosca a San Pietroburgo solo per poter ammirare il riflesso del cielo confondersi all’orizzonte. “Una cosa troppo romantica per noi russi. Ecco perché alla fine Masyanya si ritrova da sola al freddo su uno scoglio nel Neva a guardare il Golfo di Finlandia”.
Mi chiede di mantenere l’anonimato e decidiamo insieme di chiamarla Margherita, come il titolo del suo romanzo preferito di Bulgakov. Parla un italiano perfetto, scandito da un forte accento che mastica le vocali. Le chiedo come sia finita in Italia. “In realtà sono rimasta incastrata”, mi dice con sarcasmo.
La madre, immunologa di San Pietroburgo, lasciò la Russia negli anni ’90 a seguito della Perestrojka e lo scioglimento dell’Unione Sovietica, per raggiungere il fascino artistico dell’Italia. “Era innamorata della cultura italiana. Ricordo che le si illuminavano gli occhi quando mi raccontava delle differenze stilistiche tra il barocco petrino di Trezzini e quello elisabettiano di Rastrelli. Non ci ho mai veramente capito granché, se non che fossero stati due architetti italiani a progettare il Palazzo d’Inverno”. Dopo qualche anno a Milano, si trasferì a Napoli svolgendo i più svariati lavori: cameriera, donna delle pulizie, badante per anziani. Raggiunta una certa stabilità economica, decise di riscriversi all’Università ed ottenere il patentino di guida turistica. Le chiedo come mai non avesse continuato la carriera medica. “Ha studiato otto anni in Russia e lavorato nei più importanti ospedali di Mosca. Arrivata in Italia non le è stato convalidato nulla. Avrebbe dovuto ricominciare tutto daccapo, vive qui da più di quindici anni e non ha ottenuto la cittadinanza. Ma questa è un’altra storia”. Nel frattempo Margherita viveva col padre, concludendo il primo anno universitario prima di trasferirsi in Italia. “Mio padre è bielorusso. Siamo troppo uguali. Ma anche questa è un’altra storia”.
Margherita ha 27 anni. Sguardo intenso. È’ una russa tutta d’un pezzo e mentre si racconta continua a sgranocchiare qualche vocale tra una parola e l’altra. Arriva in Italia nel 2001 con un visto turistico e l’intenzione di chiedere un permesso di soggiorno per motivi di ricongiungimento familiare. Una volta presentata la documentazione, la Questura ha un massimo di 90 giorni per adempiere alla richiesta, così come stabilito dalle regole generali previste dall’articolo 2 della legge 241/1990. Tuttavia alla scadenza del periodo previsto le dicono che la pratica deve ancora essere risolta e, per evitare l’annullamento della richiesta, decide di prolungare il proprio soggiorno italiano mettendo da parte le date d’esame russe. Inoltre, a causa dello stesso vizio d’incongruenza scolastica riscontrato anni prima dalla madre, è costretta a ripetere il quinto liceo. “Dopo un anno, quando ottenni la maturità, mi rilasciarono finalmente il permesso di soggiorno. A quel punto decisi di restare in Italia iscrivendomi all’università e abbandonando tutti i miei progetti in Russia”. Non una punta di rammarico. Non un sospiro di rimpianto. Bensì una barzelletta dai toni beffardi, quando mi dice di come negli uffici della Questura, oltre che scontrarsi con l’inadeguatezza burocratica, ha sempre dovuto affrontare il pregiudizio della “domestica dell’Est”. “Gli americani dicono di essere i più intelligenti del mondo; i russi invece dicono di essere più intelligenti solo degli americani.” Accenno un sorriso. Contestare una battuta del genere significherebbe intavolare una discussione senza via d’uscita. In fondo è un’ironia tanto equivoca quanto divertente.
Sono poco più di dieci anni che vive in Italia, studiando e svolgendo diversi lavori per mantenersi: baby-sitter, ripetizioni, cameriera, segretaria e anche croupier ad un casino. Ad ogni modo, raggiunta la maggiore età e cambiando il permesso di soggiorno per motivi di studio, le risulta comunque impossibile firmare un contratto di lavoro, se non part-time. Inoltre ha una residenza storica che le tocca notificare ogni anno poiché le viene cancellata automaticamente alla scadenza del permesso. Mi confida la ritrosia all’ipotesi di tornare in Russia, nonostante l’ascesa economica mondiale dei BRICS. “Sono orgogliosa di essere russa, ma dopo dieci anni questo paese è anche un po’ mio. E in più ho smesso di bere vodka. Adesso bevo caffè”. Il suo modo di parlare mira sempre con una certa semplicità a smantellare qualsiasi forma di stereotipo, senza mai compromettere la propria integrità identitaria. Tuttavia la nostalgia ogni tanto la assale e, almeno una volta alla settimana, prepara un borsch per lei e Diego, il ragazzo con cui convive da quasi sette anni. E’ un minestrone a base di barbabietole e salsicce, lavorato con polpa di pomodoro e condito con alloro, prezzemolo e un cucchiaio di aceto. La prima volta che lo preparò per entrambi, capitò che il Napoli perse a Torino con la Juventus per 2-0. Il borsch pertanto fu bandito per sempre dalla casa. Almeno nei giorni in cui giocava il Napoli. Fino a quando, per una fortuita coincidenza, lo cucinò una sera dell’anno successivo. Era il 27 ottobre 2007 e il Napoli ospitava la Juventus durante il girone di andata, dopo che entrambe erano salite dal limbo della serie B. “Non potrò mai dimenticare quella sera. Diego si rifiutò categoricamente di mangiare la minestra. Ci rimasi malissimo, anche perché era una cosa assurda rifiutarsi di mangiare per scaramanzia. Una cosa che non ho mai capito di noi napoletani. Poi mi propose di mangiarla a patto che ci aggiungessi del peperoncino. Mi sembrò una buona idea sostituirlo al pepe. Ci sedemmo sul divano con la solita foto di Maradona autografata a farci compagnia. Alla fine della partita mi chiese di preparargli borsch e peperoncino ogni qualvolta avesse giocato il Napoli”. La partita finì 3-1 con reti di Del Piero, Gargano e doppietta di Domizzi su rigore.
Mi comincia a parlare della sua storia abbandonando l’impostazione di tono russa e lasciandosi andare per un attimo al romanticismo italiano. Mi dice che nonostante le difficoltà, rifarebbe tutto solo per rivivere la storia d’amore con Diego. In Italia si sente felice. Sembra aver inoltre interiorizzato tutte le predisposizioni culturali del paese, condividendo appieno le problematiche che anche i giovani italiani devono affrontare. Le chiedo forse con troppa leggerezza se ha mai pensato al matrimonio per agevolare le pratiche di permesso. In una frazione di secondo, la sua voce riveste la propria rudezza consonantica. “Il matrimonio è una scelta. Non un documento”. E mi fa notare che a quel punto le sarebbe molto più facile smettere di studiare, chiedere un permesso di soggiorno lavorativo e firmare un finto contratto di lavoro con il suo compagno.
Sono dieci anni che paga il kit per il permesso di soggiorno, rinnova il passaporto, ha una residenza storica, non può lavorare a tempo pieno e nel frattempo paga le tasse all’università. Inoltre convive da più di sei anni e semmai deciderà di metter su famiglia, i suoi figli molto probabilmente nasceranno in Italia. L’ho conosciuta ad un convegno sull’immigrazione e lei era la rappresentante delegata di un’associazione con cui collabora da quando era maggiorenne. È attivissima nel sociale, contribuendo in modo costruttivo allo sviluppo di nuove politiche per l’integrazione sul territorio napoletano e nazionale. Tuttavia non ha mai votato in vita sua. Neanche in Russia, poiché la lasciò quando era ancora minorenne. Nonostante questo sembra voler accettare con serenità tutte le difficoltà, anche se ogni anno le risulta sempre più difficile rimanere in un paese in cui ha raggiunto una forte consapevolezza di appartenenza culturale e affettiva. Aggiunge poi dicendomi che non si è mai sentita rappresentata o interpellata per questioni che con il trascorrere degli anni coinvolgevano direttamente il suo vissuto e il suo futuro. Le piacerebbe avere una rappresentanza che non sia solo un sindacato, potendo partecipare direttamente alle elezioni in qualità di elettorato attivo ed esprimere così anche la propria opinione. Le chiedo a quel punto cosa le manca in Italia. “L’unica cosa che vorrei è il diritto di essere ascoltata”.
Mi dice che si è fatto tardi. Ha da preparare il borsch al peperoncino. Oggi gioca il Napoli.
* Gli altri racconti pubblicati sono:
- Città di nascita Aversa: provincia della Nigeria;
- Ponti cinesi;
- Una principessa sikh italiana;