Bravi, bene, ma niente bis
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Ineccepibili le minacce di sanzioni per deficit eccessivi da parte della Commissione. Ma ora qualcosa deve cambiare: il PSC è già nel mirino.
Come era prevedibile, e in un certo senso auspicabile, la Commissione ha dato il via a quella che in termini eurocratici è definita “procedura per deficit eccessivi” ai danni di Germania, (come è il caso anche del Portogallo); è l’inizio di un periodo di stretta sorveglianza per i conti pubblici tedeschi, che registrano un rapporto deficit/PIL intorno al 3,9%, ben al di sopra della celeberrima soglia del 3% fissato dal PSC.
Cosa può succedere nei prossimi dieci mesi? In poche parole, Schröder dovrà far approvare una serie di misure drastiche (diminuzione della spesa, aumento delle imposte) per cercare di risanare, almeno parzialmente, il bilancio pubblico, evitando le pesanti sanzioni che si applicherebbero nel caso in cui nulla cambiasse. Che queste misure siano salutari per l’economia tedesca è difficile da affermare, dato che rappresentano quello che si definisce una politica “pro-ciclica”: nel momento in cui l’economia è già in recessione, il governo attuerà misure restrittive (e non ha molta scelta al riguardo). È, per intenderci, esattamente il contrario di ciò che fece Bush dopo l’11 settembre: al profilarsi di una crisi settoriale (trasporti, assicurazioni) e di fiducia dei consumatori, approvò una massiccia spinta fiscale, ovvero più spesa pubblica e meno tasse.
Se la Commissione ha fatto bene ad agire nella salvaguardia della credibilità stessa dei patti stretti tra i membri dell’UE, e delle istituzioni che devono farli rispettare, ora bisogna pensare se forse non è il caso di modificare questi stessi patti, e di ripensare totalmente le strategie di politica economica a livello comunitario.
Cui prodest il PSC? Secondo la sua logica, in caso di recessione, la diminuzione delle tasse dovute ai minori redditi, e l’aumento dei sussidi di disoccupazione, causerebbero un “rimbalzo” stabilizzatore dell’economia. Inoltre, il deficit non risulterebbe mai eccessivo, nel caso in cui si partisse da conti in ordine; il governo nel frattempo rimarrebbe praticamente neutrale, senza che ci sia bisogno che spenda o tagli le tasse. Nel caso in cui la recessione colpisca in maniera particolare un paese (ciò che tecnicamente è definito uno “shock asimmetrico”), le forze di mercato, secondo la stessa logica, garantirebbero, attraverso la flessibilità di salari e lavoratori, un nuovo equilibrio.
Analizzando l’attuale situazione, si vede che il giochetto del PSC si è rotto nel suo momento più delicato: la fase di risanamento dei bilanci europei, ovvero quella di transizione (v. un articolo di Buti et al. del 1998). La recessione è giunta nel momento in cui paesi come Germania, Francia e Italia non avevano ancora ultimato il processo di azzeramento del deficit; pensare che avrebbero potuto affrontare il rallentamento congiunturale senza un peggioramento dei conti pubblici è francamente impossibile.
Non è tutto: il PSC si dimostra totalmente inadatto ad ovviare a shock che colpiscono determinati settori e aree economiche europee. Alcuni esempi pratici: le alluvioni in Germania di quest’estate, la crisi della Fiat in Italia, il disastro ecologico e economico in Galizia. Cosa proporrebbe la logica sottostante il PSC in questi casi? Che il pescatore galiziano se ne vada e cerchi lavoro in Grecia, o che l’operaio italiano dica semplicemente alla sua famiglia che può accettare una riduzione permanente di salario, o reinventarsi un lavoro all’estero. Il risultato è che i lavoratori non vogliono essere costretti a emigrare in massa, mentre ad occuparsi del recupero economico sono gli Stati nazionali, attraverso misure d’emergenza che implicano un aumento della spesa e un peggioramento del deficit: ciò che precisamente il PSC punisce.
È ovvio che qualcosa non va: in qualsiasi altro Stato, unitario o federale che sia, esisterebbero dei meccanismi di compensazione che trasferirebbero risorse da aree in crescita ad aree in depressione, ciò che il bilancio europeo non è in grado di fare. Gli aiuti permetterebbero la ristrutturazione di queste aree, al posto di uno svuotamento delle sue risorse umane o un abbassamento del potere d’acquisto dei salari.
Insomma, questo PSC può essere un patto di stabilità, ma di crescita non ha proprio niente a che vedere; la sfortuna per i politici e gli eurocrati che lo hanno difeso, è che la recessione che ha colpito Stati Uniti e Europa è capitata proprio nel momento delicatissimo del risanamento dei conti pubblici.
La situazione è inoltre aggravata dal fatto che la politica monetaria è gestita da un orgoglioso burocrate che, nel momento in cui condivide l’analisi del suo omologo d’oltreoceano, prende invece scelte opposte. Duisenberg, mantenendo i tassi invariati in una situazione da lui stesso ritenuta preoccupante, non fa altro che scoraggiare quanti (soprattutto in borsa) preferiscono un’Europa in crescita piuttosto che un’Europa “stabilmente” impantanata, senza contare i rischi di deflazione in Germania (analoghi che negli Stati Uniti, dove Greenspan cerca di difendersi), e il fatto che il differenziale dei tassi d’interesse potrebbe portare ad un’ulteriore apprezzamento dell’euro, con danno alla competitività delle esportazioni dall’UE.
Molte cose vanno ripensate: se al governatore della BCE non importa nulla della crescita, il peso della ripresa economica grava tutto sui bilanci statali, fortemente limitati dal PSC. Le soluzioni appartengono fondamentalmente a due categorie: la prima è alleggerire il PSC, flessibilizzandolo alle situazioni congiunturali e a eventuali “shock asimmetrici”. La seconda, più incisiva, è dare peso al bilancio comunitario, per dotarlo di strumenti in grado di stabilizzare le economie europee; il problema è che la gestione di questo bilancio andrebbe affidata ad organi con una vera legittimità democratica che gestirebbero rilevanti risorse, ciò che nell’UE tutti rifiutano.
Ma fino a quando l’UE continuerà a essere un cane che si morde la coda?