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Brad Mehldau Trio: l'incanto di Orfeo al Biondo di Palermo

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Palermo

È una sala gremita fino alle gallerie ad aver inaugurato la stagione concertistica Nomos Jazz 2016 nella serata del 4 dicembre al Teatro Biondo. L’attesissima esibizione del Brad Mehldau Trio ha riunito un pubblico eterogeneo ed entusiasta, per uno di quei concerti che alcuni aspettano da una vita e che molti non vorranno mai dimenticare.

Il fisico esile, seduto al pianoforte con le spalle rivolte al pubblico, Brad Mehldau sul palco del Teatro Biondo è il manifesto vivente di quel raro genere di artista che con semplicità fa ciò che fa per la sola ragione che non potrebbe fare altrimenti. Non c’è ostentazione nei suoi modi, non chiede conferme su di sé attraverso gesti o parole: un breve saluto al momento di salire sul palco, alcuni sentiti ringraziamenti assieme al titolo dei pezzi durante il concerto, un inchino distinto ma umile sul finale. Pochi minuti nell’arco di una serata dove ogni restante secondo ha come unica protagonista la musica nel senso più intenso del termine.

Al Biondo un pubblico di tutte le età

Alle 21:30 l’atrio del teatro è ancora affollato di gente, gli ultimi arrivati faticano a ritirare i propri biglietti. L’aria è carica di attesa nella stanza, dove si mescola un pubblico sorprendentemente eterogeneo: distinti signori di mezz’età e giovani professionisti dall’aria hipster maniacalmente curata; ascoltatori “casuali” a fianco di emozionatissimi gruppi di studenti del conservatorio. È la testimonianza tangibile di come, in vent’anni, il pianista partito dalla Florida abbia impresso il proprio nome fra quelli dei mostri sacri del jazz, riuscendo allo stesso tempo a toccare con la propria musica sensibilità ed esperienze anche molto lontane fra loro.

Dal 1991 ad oggi, con più di trenta album alle spalle come leader e innumerevoli collaborazioni, Mehldau ha dimostrato di possedere quel raro ecletticismo artistico che imprime significato creativo ad ogni progetto. Conosciuto soprattutto nella storica formazione in trio (erede della tradizione del grande Bill Evans) e come solista, la sua produzione si è caratterizzata per composizioni originali quanto per le sorprendenti rivisitazioni di band come Beatles, Radiohead, e Massive Attack. Contemporaneamente, l’esplorazione musicale del pianista è proseguita attraverso numerose collaborazioni con altri grandi artisti, partendo da jazzisti quali Pat Metheny (Metheny/Mehldau e Metheny Mehldau Quartet, 2005) per passare attraverso la lirica nell’album con Anne Sofie von Otter (Love Songs, 2010), fino ad arrivare alla recentissima sperimentazione elettronica col batterista Mark Guiliana (Taming the Dragon, 2015), in un lavoro onirico dove i suoni del piano vengono sostituiti da quelli del sintetizzatore.

Impossibile distinguere spartiti e improvvisazione 

Ognuno riesce infine a guadagnare il proprio posto a sedere, appena in tempo per accogliere con pochi minuti di ritardo l'entrata del trio, accompagnata dal primo dei numerosi applausi che si susseguiranno, pezzo dopo pezzo e assolo dopo assolo, durante tutta la serata. Con i grandiosi Larry Granadier (al basso sin dagli esordi della formazione negli anni novanta) e Jeff Ballard (alla batteria, subentrato allo storico Jorge Rossy nel 2005), è l’inizio del concerto perfetto. Dal primo attacco all’ultima nota la tecnica è impeccabile, non c’è un istante d’incertezza, quasi impossibile distinguere musica scritta ed improvvisazione nella sintonia apparentemente assoluta che i tre musicisti sembrano condividere. Non c’è prevaricazione di uno strumento sull’altro e il pianoforte sembra, piuttosto che condurre, fungere da elemento legante, introducendo ed esaltando gli altri strumenti in un perfetto bilanciamento melodico. Nel giro di un’ora e mezzo gli artisti regalano al pubblico sette pezzi differenti, ognuno di essi un’esplorazione tematica su generi musicali che spaziano dal blues, al waltz, alla bossanova, per finire sulle note dello struggente Si Tu Vois Ma Mere di Sidney Bechet, che molti ricorderanno come tema ricorrente in Midnight in Paris. Novanta minuti intensi, che tuttavia lasciano lo spazio necessario per apprezzare le melodie indipendenti delle due mani al pianoforte, così come i ritmi sincopati del basso e gli inaspettati singoli suoni proposti dalle percussioni nei pezzi di sapore sudamericano, tutti elementi caratterizzanti della musica del trio. Eppure ad ogni nuovo pezzo i musicisti stessi sembrano perdersi nel proprio strumento per riemergere dal profondo con singole note o melodie che sorprendono continuamente, forse anche loro stessi. 

Come lo stato di Orfeo

Un concerto magico, che fin dalla prima nota trasmette l’invito urgente a perdersi completamente nella musica dimenticando tempo e spazio, in quello stato di grazia dove la bellezza è quasi tangibile purché vissuta in un presente sempre e solo istantaneo. È la musica che meraviglia all’apparizione di ogni nuova nota e sconcerta con ogni sua scomparsa. È l’ideale di nostalgia che tanto emerge nello stile di Mehldau, dove le melodie fondate su formule modali e linee espositive accennate rimandano continuamente ad un originale mai raggiunto, in un equilibrio precario descritto dall’artista stesso, in un'intervista rilasciata a "All About Jazz" nel 2003, come lo stato di Orfeo:

Amo quella parte del mito di Orfeo dove al protagonista viene consentito di riportare l’amata fuori dall’Ade, purché egli non si volti mai a guardarla durante il tragitto sul fiume Stige. Quando non riesce a trattenersi e si volta indietro, lei è risucchiata via, gli viene sottratta per sempre. La musica è esattamente quel momento in cui lui si volta a guardarla: vedere qualcosa che ami per un istante e poi perderlo per sempre. C’è un elemento di follia in tutto questo, ti volti a guardare anche se sai che non dovresti. La musica riunisce nello stesso momento il sentimento di conquista e quello della perdita”.

Ed è esattamente ciò che resta, quando nella sala si spegne l’ultima nota e dopo una frazione di silenzio parte scrosciante l’ultimo applauso.