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Bielorussia, il tempo incerto

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Un Paese al bivio, tra cambiamento e repressione. Il 2020 è stato l’anno in cui nulla è andato secondo i piani, nel mondo e in particolare in Bielorussia, dove la rielezione illegittima del presidente Lukašenka in agosto ha generato un’ondata di proteste generalizzate che va avanti da mesi, accompagnata in parallelo da una durissima, violenta repressione.

Avrebbe compiuto cent’anni nel settembre 2020 il Teatro Nazionale Accademico Kupalausky di Minsk, il maggiore teatro di prosa per il repertorio in lingua bielorussa, intitolato significativamente a quello che della lingua bielorussa è stato fra i più grandi cantori, Janka Kupala. Ma il 2020 è stato l’anno in cui nulla è andato secondo i piani, nel mondo e in particolare in Bielorussia, dove la rielezione illegittima del presidente Lukašenka in agosto ha generato un’ondata di proteste generalizzate che va avanti da mesi, accompagnata in parallelo da una durissima, violenta repressione.

Lo strano centenario del Teatro Kupalausky di Minsk

Era il mese di agosto e il teatro, alla soglia dei suoi cento anni, si è trovato al centro non di celebrazioni solenni, ma di una paradossale, drammatica trasformazione. “Il teatro nei primi giorni delle proteste è diventato una toilette pubblica. Uomini in uniforme a decine andavano a pisciare nel teatro”, racconta C., attrice del teatro Kupalausky, ricordando il teatro accerchiato da mezzi militari e da uomini armati, alcuni con il volto coperto.

Oltre i cordoni che circondavano il teatro, “una filiale dell’ade” di fronte alla quale C. e lo staff del teatro, attori e tecnici, si sono fermati a riflettere, sospesi sullo sfondo di uno scenario infernale che si presentava ai loro occhi alla vigilia della riapertura della stagione teatrale, prevista per gli ultimi giorni di agosto. “Abbiamo capito che non potevamo fare finta di niente e andare in scena: questo è stato il pensiero condiviso che è diventato azione. In quel periodo noi eravamo ancora in ferie, ma ci siamo incontrati e abbiamo registrato il nostro primo videomessaggio. Non abbiamo fatto richieste, non abbiamo usato slogan. Abbiamo solo detto che siamo contro le violenze, che non sappiamo come andare avanti a lavorare e che non è più possibile fare la vita di prima”.

“Molti teatri hanno continuato a lavorare”, racconta C., “si dicono contro le violenze, ci esprimono supporto, ma nonostante questo continuano a lavorare”. Per C. è inspiegabile il meccanismo che permette alle compagnie di proseguire normalmente la propria attività, magari andando in scena con commedie leggere, quando intorno infuria il terrore e i media diffondono le immagini di persone in fila con le braccia alzate, in piedi per otto ore contro un muro in un dipartimento di polizia. “Io semplicemente non posso”.

"Siamo stati licenziati, e adesso il teatro esiste solo come edificio"

“Prima che si accendessero le telecamere – prosegue C. – ci siamo raccolti sulla scena, qualcuno di noi ha chiesto: voi tutti sapete cosa state firmando davanti alla telecamera? Noi abbiamo risposto “sì”. E così è iniziato il processo. Sono iniziate le provocazioni da parte del Ministero della Cultura, con il licenziamento del nostro direttore. Siamo stati tutti licenziati, tutta l’equipe del teatro è andata via, tutto il personale che muoveva l’attività del teatro è andato via… il teatro esiste solo come edificio”.

Solo le mura sembrano essere sopravvissute nell’anno del centenario; ma quelle mura, che ora marcano il confine di uno spazio vuoto, non sono mute e inerti. Al contrario, raccontano la storia di un teatro che ha attraversato decenni grigi e polverosi per le arti, imbrigliati dalla burocrazia e dalla censura, e che è riuscito, nonostante tutto, a mantenersi vivo e pulsante. E in questa occasione non è stato da meno.

La compagnia del teatro si è riunita per fondare un gruppo indipendente che, in continuità con l’esperienza precedente, è stato battezzato Kupalaucy, quelli del Kupalausky.

C. spiega che il gruppo è in una lista nera “non ufficiale”: “Non ci danno spazi, non ci danno permessi per andare in scena, ci spingono a esibirci in segreto”. In segreto sono riusciti a fare le prove e a mettere in scena uno spettacolo, andato in scena a porte chiuse. Ma esibirsi nel “sottosuolo” non è privo di rischi. Anche la massima segretezza, infatti, non può garantire che gli OMON – le forze speciali antisommossa note per la malagrazia con la quale ricorrono al manganello – non facciano irruzione. I Kupalaucy hanno quindi cercato altrove luoghi dove esprimersi con maggiore libertà e li hanno trovati nello spazio del web, dove continuano a esibirsi attraverso i canali YouTube, Facebook, Instagram.

La “prima”, nell’anno del centenario, è andata in scena online ed è stata proiettata in uno dei cortili di Minsk.

Assia
Teatro Nazionale Accademico Kupalausky di Minsk

Qui, in uno dei cortili che già nelle prime settimane delle proteste sono diventati arene di discussione per le persone che reclamano lo spazio pubblico negato dalle autorità, per assistere alla rappresentazione si sono riunite 200 persone. Di fronte a questa partecipazione, afferma C., si sono convinti di aver fatto una scelta terribile, difficile, ma giusta. “Ci arrestano periodicamente, ci processano, ci multano, ma noi viviamo, esistiamo e abbiamo capito quanto questo sia necessario per le persone”.

Persone che oggi sono impegnate con ostinato coraggio a ripensare la propria immagine, usando tinte diverse dai toni grigi di passività, senso di sfiducia e isolamento che hanno caratterizzato i quasi tre decenni di regime di Lukašenka.

In questo processo la cultura e le arti hanno un ruolo di primo piano

Non è un caso che proprio un’opera d’arte, Eva, il dipinto del pittore ebreo bielorusso Chaim Soutine, sia diventato simbolo di dissenso ancora prima delle contestate elezioni di agosto. Il quadro faceva parte della collezione privata di Viktar Babaryka, principale avversario politico di Lukašenka, che è stata confiscata nel giugno 2020. All’immagine originale di Eva, che è diventata il fulcro di una campagna denominata Evalution, è stato aggiunto un dito medio alzato non solo contro la confisca dell’opera seguita all’arresto arbitrario di Babaryka, ma anche contro gli abusi del regime.

Non è un caso neppure il fatto che la fase delle proteste sia attraversata da un’energia creativa che ha dato linfa a tutte le forme d’arte, dal teatro, alla musica, alla street art, come se tutta l’intera folla, vasta e multiforme, delle persone che prendono parte attiva nelle proteste, in questa fase cruciale di svolta, andasse in cerca di linguaggi per immaginare e descrivere un futuro che sembra ancora pallido e incerto. Nessuno sa come sarà il dopo, dice C.: “Sarà qualcosa che di sicuro non abbiamo ancora visto negli ultimi cento anni. Io penso che quando questa lotta sarà finita, inizierà una nuova lotta, per capire cosa saremo”. Eppure, con tutte le sue incognite e le asperità che inevitabilmente verranno, il futuro, sostiene C, è l’unica prospettiva possibile.

La Bielorussia e le sue croci: fra passato e... presente

C’era una volta sul confine orientale d’Europa, a pochi chilometri da una grande città capitale, un bosco di pini e di abeti che nel loro fitto nascondevano dallo sguardo altrui esistenze segrete e invisibili agli altri. Non erano però elfi, né fate, ma le ombre di migliaia di persone portate nel bosco da uomini in divisa e mai più ritornate. Per cinquant’anni la loro storia e la loro fine erano rimaste impigliate fra le radici degli abeti e dei pini, che nulla potevano raccontare. Potevano però farlo gli uomini.

Nel 1988, mentre nel muro di silenzio che avvolgeva l’Unione Sovietica si aprivano le prime crepe, in un articolo intitolato Kurapaty, la strada della morte, gli storici bielorussi Zyanon Paznjak e Yauhen Shmyhaliou, portarono alla luce terribili fatti di cui, evidentemente, non solo gli alberi avevano conservato memoria. L’articolo raccoglieva i racconti degli abitanti della zona, secondo i quali nel bosco di Kurapaty, alla periferia di Minsk, la capitale della Bielorussia, negli anni precedenti la Seconda Guerra mondiale, ogni notte risuonavano suoni sinistri di spari. La scoperta fece molto rumore e fu aperta un’inchiesta. Così iniziarono gli scavi: dal sottosuolo emersero più di 500 fosse che contenevano resti umani e bossoli di proiettile provenienti da pistole e fucili di fabbricazione sovietica, tutte tracce di un massacro portato avanti senza sosta dall’NKVD, la polizia segreta sovietica, negli anni compresi fra il 1937 e il 1941, quelli più neri del terrore staliniano.

L’inchiesta stabilì che nelle fosse comuni erano finite almeno 30mila persone: uomini adulti, persone comuni, ma anche un certo numero di intellettuali. Intorno al bosco di Kurapaty, però, rimase un’ombra di mistero. I fatti accertati vennero messi in discussione da una seconda indagine, condotta nel 1994, dopo il crollo dell’URSS, che seguiva un’ipotesi diversa, ovvero che i responsabili del massacro fossero in realtà ufficiali nazisti e le vittime in gran parte ebrei uccisi durante il conflitto mondiale.

Indagini successive confermarono la prima versione, ma non riuscirono a risolvere tutti gli interrogativi. I cittadini però non ebbero dubbi sulla posizione da prendere riguardo ai terribili fatti e già nel 1989, in occasione del tradizionale giorno della memoria, che coincide con la festa religiosa di Ognissanti e con la commemorazione dei defunti, una gruppo di persone si mise in cammino verso Kurapaty e piantò una grande croce. Da quel giorno le marcia si è ripetuta ogni anno e le croci sono arrivate a circa un migliaio.

Ma se le autorità volutamente lo ignoravano, la gente faceva l’opposto

Le autorità mostravano, invece, un atteggiamento ambiguo rispetto al sito. Kurapaty fu dichiarato formalmente un monumento storico statale e un territorio posto sotto tutela, ma né il presidente Lukašenka, né altri membri del governo bielorusso hanno mai visitato il luogo in veste ufficiale. Il progetto di costruire un memoriale e una cappella è stato lasciato cadere nel vuoto, lo stesso vuoto creato nei libri di storia bielorussa, dove non si faceva menzione alcuna di Kurapaty. Ma se le autorità volutamente lo ignoravano, la gente faceva esattamente l’opposto, visitando costantemente il sito e impegnandosi su base volontaria nella sua conservazione e pulizia.

Con il tempo, Kurapaty è diventato luogo di preghiera per cristiani di tutte le confessioni. E non solo: pur nell’atmosfera asfittica del regime autoritario del presidente Lukašenka, Kurapaty era diventato anche simbolo politico di opposizione attiva.

Per questo motivo è stato oggetto di diversi tentativi di rimozione da parte delle autorità. Nel 2001 il governo ha approvato il progetto di ampliamento della superstrada che attraversa il bosco, costruita negli anni Cinquanta, quando delle fosse comuni nessuno era a conoscenza; poi nel 2014, ha ritirato la tutela per interesse storico-culturale dall’area dove si trova il bosco; poi ancora nel 2017 ha approvato la costruzione di un Centro Direzionale nelle vicinanze del sito delle fosse, su un terreno acquistato nel 2013 con un’operazione illegale, avvenuta quando la stessa zona era ancora sottoposta a tutela.

Ma tutti questi tentativi si sono scontrati ogni volta con la resistenza ostinata dei cittadini, gente comune, attivisti, intellettuali, religiosi, che sono sempre intervenuti compatti in memoria delle vittime della violenza spietata e arbitraria di Stalin e in difesa del sito, che negli anni e nelle traversie ha acquisito un valore simbolico ancora maggiore. Nel 2018 la tradizionale commemorazione è andata oltre il solito rituale: la marcia del primo novembre è stata preceduta il 29 ottobre dalla Notte dei poeti fucilati per ricordare intellettuali e poeti caduti nel bosco di Kurapaty.

Assia
Minsk

Dall’altra parte, però, Lukašenka ha proseguito la sua battaglia contro il sito memoriale, inviando nell’aprile 2019 i bulldozer ad abbattere e rimuovere parte di quelle croci che a suo avviso rappresentano “una manifestazione superflua” contro i crimini dello stalinismo, quando in fondo Stalin potrebbe non essere l’unico colpevole. Infatti, come essere sicuri che non siano stati i fascisti a compiere il massacro?

Nel dubbio, il presidente non ha perso tempo, ordinando alle forze dell’ordine di disperdere le manifestazioni di protesta ed eseguire l’arresto di quindici attivisti

A guardare gli eventi dell’aprile 2019 adesso, sembrano quasi una prova generale di quello che sarebbe accaduto in scala aumentata nel novembre dell'anno successivo, quando i bielorussi si sono messi in marcia verso Kurapaty per la tradizionale celebrazione, esponendosi al rischio di ritorsioni da parte del regime, impegnato con ogni mezzo a reprimere l’ondata di proteste pacifiche iniziata nell’agosto 2020, in seguito alla controversa e contestata rielezione del presidente.

La celebrazione, come era prevedibile, è terminata con l’arresto di 231 persone, accusate di aver organizzato un’azione che viola gravemente l’ordine pubblico, reato punibile con il carcere fino a tre anni. Una reazione, quella del governo, che ha moltiplicato le sue forze rispetto al passato, ma allo stesso tempo si sono moltiplicati e si moltiplicano gli spazi di opposizione e dissenso ben al di fuori dal tormentato perimetro di Kurapaty, il bosco che c’era e c’è ancora, con i suoi alberi silenziosi, le sue croci e le sue voci contro le violenze di ieri e di oggi. Una voce, come quella degli attori e delle attrici del Teatro Kupalausky, che in questi mesi continua a gridare più alta e più forte.


Questo articolo viene pubblicato nel quadro di una partnership editoriale con la testata QCodeMag. L'articolo, ri-editato dalla redazione di Cafébabel, è a cura di Maria Izzo ed è stato pubblicato originariamente su QCodeMag.

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