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Attentati a Istanbul, ovvero la banalità del male

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Matteo Iacovella

società

Martedì mattina il quartiere della Moschea Blu, cuore turistico di Istanbul, è stato colpito da un attacco terrorista che ha causato 10 morti e 15 feriti, per la maggior parte turisti. Nel resto della città si discute, ma la vita continua. Come se il terrore fosse diventato tristemente banale.

Martedì, ore 11:30 del mattino. Le edizioni straordinarie dei TG locali, gli sms dei parenti, il passaparola tra due clienti di un bakkal, i social network. L’informazione si diffonde a macchia d’olio: si è verificata un’esplosione «di origine sconosciuta» nel quartiere turistico di Sultanahmet, a Istanbul.

Anch’io ho avvisato i miei genitori, più o meno mentre su Facebook leggevo il post di un mio contatto che diceva: «Sono a Cihangir (Taksim), ho appena sentito un’esplosione, qualcun altro l’ha sentita?». Una persona risponde di averla sentita: «Sembrava un temporale, ma non è nuvoloso! Quando soffia il lodos, su Istanbul cadono a terra anche gli oggetti più grandi e pesanti. Sarà stato quello».

Senza farmi troppi pensieri, anch’io seguo fiduciosa la pista del lodos, questo vento caldo e forte che effettivamente provoca spesso numerosi danni. Quando c’è lodos, i gestori della distribuzione del gas consigliano addirittura di non accendere i riscaldamenti, per paura che il vento possa respingere indietro i fumi di scarico, ostruendo le canne fumarie.

Da un orecchio entra…

Decido comunque di consultare lo Hurriyet Daily News, la versione inglese del noto e autorevole quotidiano turco. Le ultime notizie parlano in effetti di un’esplosione, che ha provocato diversi feriti accanto alla frequentatissima Moschea Blu. Subito ne parlo con il mio coinquilino, un grafico trentenne. Sembra molto più interessato da un’applicazione sul cellulare di cui ho dimenticato il nome. A colpirmi è la sua reazione: all’inizio nessuna. Nessuna reazione.

Quando passa l’annuncio di numerosi morti e di una probabile origine terrorista dell’attacco, le nostre coscienze in parte si risvegliano. «Evita di prendere la metro,» mi dice. «Devo lavorare, non dovrebbero esserci problemi comunque,» gli rispondo. Quentin, che fa parte della squadra di cafébabel Istanbul, conferma: «All’università le persone stanno bevendo çay (tè, n.d.t.) e ridono, tutto sembra molto tranquillo». Ci diciamo che forse è esagerato chiudersi in casa ed evitare qualsiasi spostamento, come se la nostra vita fosse in pericolo. 

…E dall'altro esce

Stupendomi del mio rifiuto e della mia calma, mi interrogo comunque sulla percezione del terrorismo in questa città, che da due anni è anche la mia città. Una bomba, un’esplosione, una sparatoria: situazioni che, in tutta sincerità, mi preoccupano tanto quanto il pensiero di dover pagare l’affitto a fine mese (forse addirittura meno). E non sto esagerando.

È chiaro che sono stata profondamente scossa dagli attentati di Ankara (il 10 ottobre scorso, un attentato rivendicato da Daech ha provocato 102 morti: si è trattato dell’attacco terroristico più grave nella storia turca, n.d.r.) e che da allora sono diventata più prudente. Al contempo, però, non posso dire di aver davvero temuto per la mia incolumità. Mai come i miei parenti in Belgio o in Francia. Sono io o l’incoscienza è generale? Sono io la fatalista o lo siamo tutti?

Se mi faccio queste domande è a causa della frequenza di questi eventi. Eventi che, come nel caso di Istanbul, sembrano sconvolgere più le persone che abitano a migliaia di chilometri che gli abitanti della città.

Famiglie, abitudini e geografia: quali sono le ragioni?

La ragione io la ignoro. Forse perché in Belgio, nei Paesi Bassi, in Francia, sono le nostre famiglie e i nostri amici a raccogliere informazioni, a preoccuparsi. Come non capire mio padre, che quando un giornale titola "Istanbul: esplosione vicino a una stazione della metro", solo 20 giorni dopo i terribili attentati di Ankara, mi scrive: «È ora di tornare a casa (a Bruxelles, n.d.r.)»? Puck, del gruppo di cafébabel Istanbul, mi ha scritto: «Non ho sentito nulla sull’attentato, finché i miei parenti non hanno iniziato a scrivermi per sapere se ero vivo!».

Forse perché qui, diversamente da casa, questi attentati sono più frequenti. Quando dico "qui" mi riferisco alla Turchia in generale, divisa dal 1984 dal conflitto curdo. Ma mi riferisco anche a Istanbul, la cui densità di popolazione supera i 5.000 abitanti per chilometro quadrato: il rischio di un evento di questo tipo, a mio avviso, è per forza di cose più elevato. Inevitabilmente, più se ne sente parlare e più ci si abitua. Senza contare poi la struttura della città, divisa in tre parti (Asia, Europa, Corno d’oro) dal Bosforo. Per esempio, la notizia dell'«attentato suicida di una donna contro la polizia» avvenuto a Fatih (un distretto di Istanbul, n.d.r.) ha una risonanza molto più debole sulla stampa europea.

O forse perché, per effetto del sensazionalismo, qualsiasi evento si verifichi a Istanbul tende a essere associato agli scontri di Gezi prima e agli attentati di Ankara poi. Ogni manifestazione è legata a Gezi, ogni esplosione è un atto terroristico organizzato. Inoltre, la città di Istanbul si estende per 2.600 chilometri quadrati, ma include anche una regione allargata di 5.000 chilometri quadrati. Pertanto, quando si parla di un'esplosione o di disordini avvenuti a Istanbul, si intende un territorio molto vasto. Prendiamo la notizia della polizia che ha «aperto il fuoco a Istanbul»: titolo tanto approssimativo quanto accattivante di Le Monde. Il luogo di cui si parla, Okmeydani e – senza fare l'apologia di ciò che è successo – si tratta di un quartiere che deve spesso affrontare il problema della violenza urbana e degli scontri fra polizia e civili. Un po' come se si menzionassero tutti i disordini che avvengono nelle periferie di Parigi, New York e le altre metropoli.

Le nostre famiglie che si preoccupano, un Paese in cui si finisce per abituarsi al peggio, gli eventi ripresi in modo sommario dai media: forse uno di questi fattori può spiegare la differenza fra la reazione di una qualsiasi persona a mille chilometri di distanza e la mia. Forse nessuno di essi, oppure tutti insieme.

Non ho una risposta, ma qualcosa oggi è cambiato: per la prima volta mi preoccupo del modo in cui il mondo continuerà a girare. Del modo in cui il terrore è diventato banale, in cui è diventato banale ai miei occhi. 

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Pubblicato dalla redazione locale di cafébabel Istanbul

Translated from Attentats à Istanbul : la banalité du mal