Ascanio Celestini, l'ultimo dei cantastorie: «Denuncio la violenza verbale dei nostri tempi»
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E' il portabandiera del teatro italiano del momento, il satiro preso di mira dal potere, l'antropologo che meglio di chiunque altro mette in scena i mali dell'epoca. Ascanio Celestini, che ora gira l'Italia con "Pro patria", uno spettacolo dedicato ai 150 anni dell'unità nazionale, è celebre anche Oltralpe. Lo abbiamo incontrato per un lungo brunch a Parigi, a giugno scorso.
Il ricordo non è sbiadito.
Ti guarda e ti parla come un cugino maggiore, Ascanio Celestini. Uno di quei cugini nati negli anni 70, che hanno vissuto i nostri stessi cambiamenti, ma in maniera meno repentina, e sono riusciti a conservare la saggezza e la lentezza utili per capire il mondo. Un libro aperto, pieno di operazioni matematiche miste a parole, a teatro come nella poltrona dell'albergo da cui mi parla a Montmartre: Celestini usa immagini semplici per svelare un meccanismo, moltiplica e divide per arrivare a un risultato altrettanto semplice. «Perché la realtà la si comprende più facilmente attraverso i vicini di casa che grazie a Proust o Dostoevskij». Vive a Morena, borgata di Roma, in una casa che sta davanti a quella in cui nacque 39 anni fa. Ha sposato la nipote di un amico del nonno. Lo ha fatto a teatro, in Emilia Romagna, durante un laboratorio con delle persone anziane: «Dovevamo provare una scena in cui due si sposavano, e allora ho deciso di farlo io per davvero». Nella sua biografia, non elenca gli studi universitari e la formazione teatrale, ma i lavori dei genitori, dei nonni e dei prozii, «per cercare di mettere in piedi i pezzi della mia formazione umana».
Rivoluzione linguistica
Veste sempre di nero, e da anni si alliscia un pizzetto lungo 20 centimetri, che lo incupisce ancora di più. E' cinico, in scena, parla di persone che non riescono a comunicare, di gente che cammina in fila indiana, di discriminazioni, di politici corrotti e intrepidi, di matti felici che si disperano quando capiscono che vivono in un manicomio.
"Io denuncio la violenza verbale perché storicamente ha sempre preceduto la violenza fisica"
Al Théâtre des Abbesses a Parigi, a giugno scorso, ha fatto due serate col tutto esaurito. Tra i suoi spettacoli, "La fila indiana" è quello forse più violento, in cui il cantastorie usa la stessa violenza verbale che caratterizza i nostri tempi: in politica, al lavoro, a scuola, per strada. «E' in corso uno sdoganamento dell'indicibile – spiega – una rivoluzione linguistica interessante per il teatro, ma che non dovrebbe toccare la politica». Alle assurdità del premier italiano Silvio Berlusconi, troppo facili da citare, si aggiunge la violenza dei media: «Come quando titolarono che il capo dei Vescovi italiani aveva definito pedofili gli omosessuali. Aveva però avvicinato i due concetti in maniera pericolosa, affermando che 'se accettiamo pienamente l'omosessualità, finiremo per consentire la pedofilia'. Io denuncio la violenza verbale per un semplice motivo, perché storicamente ha sempre preceduto la violenza fisica. Come quando in Rwanda gli Hutu chiamavano i Tutsi scarafaggi, e poi li hanno sterminati».
Una storia dentro a un'altra: il teatro è matematica
Con uno stile da cantastorie, un ricco uso dell'anafora e una poetica concentrica (una storia sempre dentro a un'altra), accompagnato da una chitarra incalzante, Celestini racconta di ragazzini che a scuola si odiano e si emarginano fomentati dalla maestra, di un uomo solo e vuoto che ha un sosia con cui non riesce a fermare una persona intera, di un presidente corrotto che prende in giro il popolo senza nascondere di farlo, di un imprenditore di merda che fa affari con la merda. Lo affianca, nelle sue tournée nei paesi francofoni, un attore biondo e paffuto che si è fatto crescere un pizzetto lungo quanto il suo, il belga Patrick Bebi. La sua traduzione in scena è altrettanto spettacolare: «Ascanio dà molto in scena, trasmette un energia fortissima che io, che sto vicino a lui, cerco di trasmettere al pubblico». Perché i francesi lo adorano? «Semplice, nella sua opera c'è una parola politica precisa e limpida, che non esiste nel teatro del nord Europa».
Più che un «cantastorie», Celestini preferisce definirsi «uno che raccoglie storie». Fa ricerca antropologica nelle carceri, nelle scuole, negli ospedali e nei manicomi: un capolavoro il film La Pecora Nera, apprezzato a Venezia nel 2010, in cui interpreta il ruolo di Nicola, dove il confine tra la normalità e la pazzia è praticamente inesistente, ma è spietata la condanna della «società del supermercato». Nell'ultima scena, girando tra gli scaffali, Nicola consuma e vomita tutto quello che trova.
"Non abbiamo più bisogno di relazioni"
«Un tempo il paese dove abito, Morena, era considerato una borgata di Roma. Adesso è 'periferia'. Le periferie sono diventate le sedi dei centri commerciali, un tempo invece erano borgate a se stanti, non c'era bisogno di andare a Roma per lavoro. La mutazione antropologica li ha trasformati in dormitori. Così il proletariato è stato assorbito dalla cultura borghese e la città a suo modo si è 'borgatizzata'». Risultato? «Si vive nella città come un cliente, non più per incontrare la gente ma per acquistare. Non si va più al bar per parlare con il barista, non ci sono più luoghi dove raccontare, non abbiamo più bisogno di relazioni».
Nel pessimismo cupo di Celestini, brillano però due occhi chiari e comici, che tradiscono una felicità di fondo, il privilegio di incontrare e scambiare parole con un sacco di persone, in modo appassionato e generoso, con tanto di risate e sfottò. Per questo vive ancora a Morena e cerca di non separare il lavoro dalla sua vita, forse per la paura di perdere le relazioni più solide e rare. E' la lezione più importante che riesce a dare. Per questo, andate a trovarlo dietro le quinte.
Tutte le foto: © per gentile concessione di Ascanio Celestini